“È un coltello quando sei in cima, perché logicamente il prossimo passo è vederti cadere sul fondo“. La Brat Summer di Charli XCX sarà anche finita, ma il ritornello, e per la verità tutte le strofe, del remix di Sympathy Is a Knife con Ariana Grande potrebbero essere battute di The Substance di Coralie Fargeat. “È un coltello quando aspettano i tuoi errori / È un coltello quando sei così carina che pensano tu debba essere finta“.
Il brano parla del controllo della narrazione, si chiede chi scriverà, alla fine, la storia. Il film di Fargeat, vincitore del premio per la miglior sceneggiatura all’ultimo Festival di Cannes, pure, ma non solo. Hollywood, giorni nostri agghindati da un bling-bling un po’ rétro. Elisabeth Sparkle è una ex gloria del cinema reinventatasi gym coach televisiva: body alla Flashdance e guardaroba pazzeschi tra i quali si insinua un’età che cresce e tocca i cinquanta. Non è facile fare i conti con il tempo, quando la tua carriera è fondata (anche) sulla presenza fisica.
Ecco, no, questo è sbagliato. Lo sarebbe, se non vivessimo nella società dell’immagine e del patriarcato. Ma l’industria del cinema è già stata messa alla berlina. Tutto questo lo sappiamo. E in un certo modo lo deve sapere anche Sparkle – che ha il cognome delle stelle che luccicano – quando il suo odioso capo Harvey (Dennis Quaid) arriva a dirle che gli anni che si porta sono troppi. Lo fa con le cornee fuori dalle orbite, un leggero occhio di pesce della lente, e un piatto di gamberetti scannati rumorosamente, rabbiosamente. Tutto, saliva da masticazione compresa, arriva addosso a Elisabeth. Manspreading (ovvero la tendenza degli uomini ad allargarsi fisicamente e moralmente) contro una donna di mezza età a cui viene chiesto di farsi piccola, da parte. E, con un regalo indecente, mettersi a cucinare ricette francesi.
Una scena che abbiamo già visto. Così come la sua continuazione: durante una visita medica, Sparkle viene “reclutata” à la Squid Game come candidata a una nuova “cura” che promette di “cambiare la vita”. Riceverà The Substance, la Sostanza, da iniettarsi, e potrà creare una versione doppia di sé, in questo caso fornita di tutti gli attributi che diventano esigui arrivati a metà secolo: chiappe sode, visino d’angelo, body che stanno come vaselina. In altre parole, Margaret Qualley, che si presenta al mondo con il nome di Sue e diventa presto il rimpiazzo di Sparkle alla gloria televisiva. Mentre un corpo vive, l’altro rimane dormiente. Ogni sette giorni, lo “switch” per attivare la coscienza di Elisabeth in questa o quella veste.
La cogenza logica del processo – e il legame psichico che si instaura tra le due – non è particolarmente dettagliata. Seguitemi, lasciate perdere: non è importante. Ciò che conta è il gesto, anticipato nella prima inquadratura del film: una siringa inietta la Sostanza nel tuorlo di un uovo crudo. Questo si sdoppia come durante una mitosi. OGM, droghe, scienza andata a male: sul menu c’è un coacervo di paure, ma il significato del fatto rimane. Si è esercitato un controllo. Proprio quello che Elisabeth Sparkle ha perso: sul proprio corpo, sulla vita che si è costruita, sulle parole che viaggiano sul suo conto.
È un casting azzeccato, quello che sceglie di mettere nel suo ruolo Demi Moore, che in un certo senso sullo schermo di The Substance porta la sua vicenda personale e lavorativa. Bomba sexy, nuda con pancione in copertina, Brat (Packer), e quanto le sta ancora bene quel corpo nonostante l’età che avanza? Ci voleva un body horror – perché di questo, e di splatter glorioso, e di gore ben eseguito si parla, quando parliamo di The Substance – per darle la possibilità di una vendetta personale (però lowkey, very demure) che tirasse in mezzo tutta l’industria. E che body horror!
Fargeat la lezione l’ha studiata bene: dalla Mosca di Cronenberg alla Cosa di Carpenter, passando per Crimes of the Future e il Carrie di Brian De Palma, ma anche da quella doppiezza tutta noir e scapigliata che contrappone l’una all’altra donna, la bionda e la mora, l’angelo e il diavolo. E che qui, con efficace ribaltamento di ruolo, Fargeat mette in discussione. “Remember you are one“, ricordati che sei una sola. Questo l’avvertimento contenuto nello starter pack della Sostanza. È quando questo principio viene a mancare che nascono i mostri. Quando si perde il controllo della narrazione, un po’ Elisabeth un po’ Sue.
C’è chi si è indignato dicendo che The Substance è troppo poco femminista. C’è chi l’ha celebrato dicendo che era molto femminista. Qualcuno dice che i legami logici della trama tengono poco, bulloni avvitati male. Per noi, che bello vedere un B movie diretto da una donna, e che dialoga con la tradizione del genere. Poi certo, un horror nasce per dire qualcosa senza dirla precisamente, nascondendo la paura dietro un simulacro: l’uovo che si fa mutante, appunto. La trasformazione di sé in altro da sé.
C’è chi un ritratto lo tiene in soffitta e lo usa per espiare i peccati (e anche qui il perché o il per come non erano mai stati cristallini). Altri stringono patti con il diavolo all’inseguimento di un attimo bello. La cosa curiosa, però, è che i titoli in questi casi recitano: Il ritratto di Dorian Gray, Faust. Come Frankenstein, prendono nome dai loro protagonisti, non dai risultati delle loro azioni, o degli escamotage coinvolti nel processo. Perché quelle sono storie di travalicamento del limite, la volontà sta al centro di tutto.
The Substance si rigira invece su se stesso, e mette al centro la sostanza stessa di cui sono fatti i sogni, o forse gli incubi: la cura miracolosa al male del tempo che passa. Come una fialetta di Ozempic, farmaco per il diabete utilizzato da chi di diabete non soffre per dimagrire, il centro della narrazione è un altro. È la sostanza che governa il gioco, che obbliga Elisabeth a switchare ogni sette giorni, a recarsi in un deposito nascosto per prendere le ricariche di cibo per il corpo a turno dormiente. E che la porta a consumare, in una sadica lotta alla sopravvivenza del più adatto, la sua propria carne. Dimenticandosi che era una sola. Perdendo il controllo. Tra guerre minacciose all’orizzonte e piccole ossessioni della quotidianità (quanto ne mangio di questo? quale cena idratante è la migliore?), chi non la vorrebbe, l’illusione del controllo perfetto?
In questo modo The Substance lo diventa, alla fine, un film femminista, o dalla parte del femminile. Perché, dall’abbuffata di gamberi di Harvey fino allo scioglimento, una donna è ossessionata dalla sua perdita di polso sulla realtà, ma prima di tutto su se stessa. Che è l’unica cosa che sembra rimasta a noi, in un mondo che corre verso un traguardo che ha il suono di uno schianto. Solo che lei, Elisabeth, le redini della situazione ce le aveva anche. Poi le hanno fatto credere che non fosse così. E, come vuole il vecchio adagio, è il sonno della ragione (e non una fiala di liquido verdino) a generare i mostri.