I Beatles si erano sciolti, Dylan giocava a nascondino con i fan e con i media ed Elvis s’era appena fatto fotografare alla Casa Bianca con Richard Nixon dichiarandosi patriota e fedele al governo. Non erano le migliori premesse perché il 1971, come poi in molti hanno sostenuto, diventasse l’anno più importante della storia del rock. Il giornalista inglese David Hepworth ci ha anche scritto su un famoso libro, 1971 – Never a Dull Moment: Rock’s Golden Year, tradotto in italiano dall’editore Sur con il titolo di 1971. L’anno d’oro del rock e utilizzato come spunto per un documentario d’approfondimento in otto episodi, 1971: The Year That Music Changed Everything, da oggi disponibile su Apple TV+. Sei ore circa di girato con cui il regista Asif Kapadia, affiancato dal coproduttore James Gay-Reese – lo stesso premiato team di Senna, Diego Maradona e Amy (il biopic su Amy Winehouse) – e dagli aiuto registi Danielle Peck e James Rogan, che hanno diretto quattro puntate a testa, sviscera il momento chiave in cui pop, rock e cultura di massa “uccisero” gli anni ’60 (lo dice David Bowie, nelle sequenze finali dell’ultimo episodio) preparando il terreno al 21° secolo.
Lo fa dipingendo un affresco panoramico e imponente in cui si intrecciano storie e piani narrativi, musica, media, politica e società, partendo da una premessa interessante e da una volontà precisa: raccontare gli eventi come se ci fossimo ancora dentro fino al collo, in maglione dolcevita e pantaloni a zampa d’elefante, basette e capelli lunghi, riavvolgendo i nastri della storia per ricostruire una capsula spaziotemporale in cui predominano le interviste e i notiziari d’epoca, immagini di repertorio, filmati editi, ma anche materiali mai visti prima recuperati e assemblati con un minuzioso lavoro di setaccio degli archivi per il quale, come ha spiegato lo stesso Kapadia al sito Business Doc Europe, i tre registi si sono calati nei panni di «giornalisti e reporter investigativi, oltre che in quelli di artisti creativi».
La loro è una potente sinfonia di suoni e immagini, un «mosaico che comprende pezzi provenienti da tutto il mondo e che è il pubblico a dover cercare di comporre», un collage senza segmenti di raccordo e una vera trama che, a differenza del libro di Hepworth, non segue un filo cronologico preferendo organizzare argomenti e contenuti in puntate tematiche che documentano i rapporti turbolenti tra i musicisti e l’establishment e il loro ruolo di testimoni e protagonisti del tempo, ma anche la cultura della droga e i suoi effetti, la ricerca spirituale e la proliferazione dei credi religiosi, la rivoluzione sessuale e le battaglie contro i paladini del buon costume (al processo per oscenità intentato a Londra alla rivista underground Oz viene dedicato parecchio spazio), l’emergere del cantautorato al femminile con Carole King e Joni Mitchell e delle nuove figure di riferimento della black music che sposano la presa di coscienza della comunità afroamericana, l’immigrazione nel Regno Unito e le tensioni razziali sulle due sponde dell’Atlantico.
Sono argomenti che gli appassionati di musica e di storia del Novecento conoscono bene, così come risulteranno familiari a molti i filmati che riprendono il making di Imagine nella casa di campagna di John Lennon nei dintorni di Ascot, il concerto organizzato da George Harrison per il Bangladesh, l’esilio fiscale dei Rolling Stones in Costa Azzurra durante il concepimento di Exile On Main Street, le apparizioni televisive degli artisti al Dick Cavett Show che circolano liberamente su YouTube e l’arresto di Charles Manson e delle invasate ragazze della sua Famiglia per gli omicidi commessi nell’estate del 1969. Solo che non li si era mai visti tutti insieme, intrecciati in un plot che ha il tono epico e il ritmo impetuoso di un film di Scorsese o di Oliver Stone, ma in cui non c’è fiction né riflessione retrospettiva affidata a protagonisti d’epoca, studiosi, storici ed esperti. Artisti, discografici, dj radiofonici, esponenti politici, antagonisti come i membri dei Black Panthers e dei Weathermen, giornalisti come Jann Wenner e Robert Greenfield di Rolling Stone, Joel Selvin del San Francisco Chronicle e lo scrittore Hunter S. Thompson inventore del gonzo journalism raccontano tutto mentre sono nell’occhio del ciclone, entrando a gamba tesa sul qui e ora di un’epoca spesso analizzata e giudicata con il beneficio del senno di poi.
Fin dal primo minuto del primo episodio della serie, What’s Happening?, ci si trova risucchiati nel vortice degli eventi e della musica. La voce fuori campo di Chrissie Hynde dei Pretenders, testimone oculare di quei fatti sanguinosi, ricorda uno degli antefatti cruciali, il massacro dei quattro studenti della Kent University da parte della Guardia Nazionale (i “soldatini di latta” di Nixon) che ebbe luogo il 4 maggio del 1970. Subito dopo naturalmente parte Ohio, eseguita in concerto da Crosby, Stills, Nash & Young, e iniziano a spargersi sul tavolo le tessere di un domino che ingloba tutto o quasi: l’incubo e l’escalation del Vietnam, i movimenti pacifisti e la reazione a muso duro del presidente Tricky Dicky, i ghetti neri in disfacimento cantati da Marvin Gaye in What’s Going On, Lennon e Yoko che dibattono con gli attivisti sulla crisi tra India e Pakistan e intonano “all I want is the truth” invocando la battaglia del bene contro il male, l’incontro di boxe tra Joe Frazier e Muhammad Ali che oppone la comunità afroamericana integrata a quella che rivendica la libertà di pensiero e azione, le manovre oscure dell’FBI scoperchiate dal furto di documenti segreti nella sua sede di Philadelphia mentre risuonano le note di Won’t Get Fooled Again degli Who, “non ci faremo fregare un’altra volta”, nel momento storico in cui, come ricorda il produttore Jimmy Iovine allora commesso in un negozio di dischi, la musica «non era solo un riflesso dei tempi ma era lei stessa a crearli».
Il montaggio è tutto, in 1971: The Year That Music Changed Everything, che in quel mare sterminato di documenti fa affiorare ipertesti e connessioni non sempre scontate attingendo anche a reperti mai visti (come la serie di scatti che raccontano il primo tour promozionale negli Stati Uniti di David Bowie, androgino e in abiti femminili, ai tempi di The Man Who Sold the World e prima del grande successo mondiale). Bowie, Marc Bolan e i T. Rex, gli Stones allo sbando e ispirati di Exile, lo Sly Stone strafatto e paranoico di There’s a Riot Goin’ On, Alice Cooper con i suoi spettacoli in stile Grand Guignol parigino, Curtis Mayfield, Aretha Franklin, Marvin Gaye, gli Who ed Elton John sono personaggi ricorrenti che riemergono da un episodio all’altro, dando continuità a una storia che parla di dischi, musica e mercato senza entrare quasi mai nei dettagli spiccioli, ma raccontandone piuttosto l’impatto socioculturale e sul costume e proiettandoli nello scenario di grandi trasformazioni socioculturali (Changes, la canzone di Bowie, intitola il terzo episodio), di tragedie simboliche (la morte di Jim Morrison a Parigi), di soprusi collettivi e privati (Tina Turner schiavizzata dal marito Ike), sullo sfondo di strade perennemente trafficate, grattacieli, insegne e macerie di metropoli iperattive e di periferie degradate, in un clima violento ed eccitante che apre anche una piccola finestra sull’Europa raccontando la Germania che ai tempi della Baader-Meinhof e dei primi Kraftwerk non ha ancora fatto i conti con il suo terribile passato nazista.
L’ultimo episodio si chiude con il discorso di Capodanno della Regina Elisabetta all’alba del ’72, con i volti speranzosi e inebriati di chi scandisce il countdown, con l’arrivo di Ziggy Stardust e con una rapida sequenza di immagini che da Bob Marley e dal punk portano a Michael Jackson, ai rapper contemporanei e a Billie Eilish. Tutti figli, sostengono Kapadia, Peck e Rogan, di quell’anno formidabile (e magari un po’ più lungo di dodici mesi) i cui nodi non sono mai venuti tutti al pettine. “La rivoluzione non sarà trasmessa in televisione”, cantava allora Gil Scott-Heron (The Revolution Will Not Be Televised, episodio 5), ma cinquant’anni dopo torna sugli schermi dei pc, dei tablet e degli smartphone senza avere mai abbandonato i nostri giradischi.