A qualcuno sembrerà leggerissimamente eccessivo e provocatorio proclamare Cobra Kai – la cui terza stagione è disponibile su Netflix dal 1° gennaio – la serie migliore di un anno iniziato da meno di una settimana. Indubbiamente lo è. Ma è anche un doveroso tributo a quella che, da iniziale “operazione nostalgia” a basso budget, si è rivelata, puntata dopo puntata, una delle migliori serie mai realizzate degli ultimi anni (attualmente è la più vista su Netflix Usa). Oltre due decadi fa, gli Afterhours cantavano Non si esce vivi dagli anni ’80. Ebbene, Johnny Lawrence e Daniel LaRusso, i personaggi principali di Cobra Kai, ce l’hanno fatta: sono sopravvissuti alla fama clamorosa esplosa nel decennio più saccheggiato della storia dell’audiovisivo, alla maledizione degli attori da “one hit wonder” e all’oblio in cui sembravano essere destinati a restare per sempre con il cambiamento dei gusti del pubblico.
Da anni l’industria cinematografica cerca di monetizzare una delle emozioni potenzialmente più lucrose di sempre, la nostalgia, proponendo reboot di film Eighties che, nella migliore delle ipotesi, sono orrendi. Perché? Le ragioni sono varie. Tanti remake recenti di pellicole cult falliscono perché rendono troppo esplicita la loro ragion d’essere a scapito della magia: fare cassa. È il caso, per esempio, degli inutilissimi reboot di Conan il barbaro o di Nightmare – Dal profondo della notte. In altri casi, il rifacimento contemporaneo gioca troppo sul “sicuro”: quella del remake perfetto è infatti una ricetta difficile e complessa in cui il successo si ottiene miscelando sapientemente elementi iconici dei classici e il prendersi delle libertà dai film originali, anche se quest’ultima strada può rivelarsi un rischio. Vedi Total Recall, il remake di Atto di forza del 2012 che sceglie di non ambientare le vicende dei suoi protagonisti su Marte, sacrificando uno dei tratti più amati del film di Verhoeven. In altri ancora, il cast non ha la forza interpretativa o il carisma degli attori originali: leggi il dimenticabile The Thing del 2011.
Cobra Kai, pur essendo una serie, evita tutte queste insidie, configurandosi fin da subito come un atto d’amore nei confronti di una storia e dei suoi personaggi ancora vividamente impressi nella corteccia di legioni di appassionati della saga di Mr Myagi e compagnia, dando spazio anche alle speculazioni fatte nel corso degli anni dai fan. Cobra Kai è fan service fatto bene, ma ha qualcosa da insegnare a tutti, anche a chi non aveva 10 anni nel 1984 e pensava davvero che lucidando auto d’epoca, dando la cera ai pavimenti della propria casa e riverniciando il recinto sarebbe diventato un asso del karate (si trattava invece sfruttamento del lavoro minorile). Vediamo perché.
Il ribaltamento del punto di vista
Cobra Kai muove i suoi passi dalla fine del primo fortunatissimo film The Karate Kid (ma ci sono costanti richiami anche al secondo e al terzo sequel) diretto da John G. Avildsen, che aveva già sfornato un successo clamoroso premiato con l’Oscar, Rocky, nel quale uno sfigato con l’emiparesi corona il suo sogno di riscatto diventando campione del mondo. Anche qui si parla di sfigati: Daniel LaRusso, un giovane nerd pelle e ossa proveniente dal New Jersey, fatica a inserirsi nella sua nuova casa in California. Ha pochi amici e a scuola viene impietosamente bullizzato dal figo del liceo, il biondo, viziato e ariano Johnny Lawrence e la sua cricca. Reagirà alle offese grazie agli insegnamenti di un saggio giardiniere di Okinawa, Mr. Myagi (non so quanto guadagnassero i giardinieri a Los Angeles, ma Miyagi se la passa piuttosto benem visto che ha una megavilla a Encino e una collezione di auto d’epoca), che gli permetteranno di conquistare la gnocca reginetta del ballo (nonché fidanzata di Johnny) e di sconfiggere la sua nemesi nella resa dei conti finale, l’All Valley Karate Championships, che di fatto è un semplice torneo di arti marziali locale ma nel film ha più seguito dei playoff dell’NBA. Daniel vince il torneo, si mette con la gnocca e diventa un local hero. Ma che ne è di Johnny? Cobra Kai risponde a questa domanda mostrandoci la vita dell’ex biondo sciupafemmine trent’anni dopo. Riviviamo quindi le vicende arcinote del 1984 da un punto di vista completamente nuovo, ed empatizziamo col villan che ora, con l’aspetto di un vecchio surfista senza fissa dimora, assume le caratteristiche di un affascinante perdente, nel solco di The Wrestler (ancorché meno tragico di Rourke). Johnny è passato da un fallimento umano e professionale all’altro; non si è creato una carriera, ha un’ex moglie tossica e un figlio adolescente che non ha mai visto e che lo odia, ed è diventato un perfetto esempio di white trash americano: un uomo poco scolarizzato, infastidito dalle minoranze e incapace di lasciarsi alle spalle i fasti passati, terminati quel fatidico giorno in cui ha preso un calcio in faccia ed è volato al tappeto. Trent’anni dopo, Johnny non si è più rialzato. Ma un bel giorno un episodio casuale gli rompe qualcosa dentro e Johnny decide di abbandonare un’esistenza che sembrava un’eterna puntata di Meteore e di ripartire dove aveva lasciato: riaprendo una scuola di karate (che chiamerà nostalgicamente Cobra Kai, come la sua vecchia scuola) e mettendo a frutto le lezioni del suo sensei: «Colpire per primo, colpire duro, senza pietà!». Ma gli anni passati ad ascoltare i Quiet Riot sprofondato in mutande nel divano dopo la sedicesima lattina di Corrs hanno insegnato a Johnny ad essere più riflessivo, ad accogliere in sé il dubbio, a mostrare pietà. Ora è lui il perdente, e per risalire la china può solo imparare dai propri errori. Cobra Kai in questo senso è fedele ai suoi predecessori: è una storia di rivalsa, di un nuovo inizio. È la rivincita dei nerd: tutti i suoi allievi sono ispanici, nerd, ragazze grassottelle, sfigati col labbro leporino. Ed è impossibile non immedesimarsi almeno un po’.
La credibilità dei personaggi
Il volto e le azioni del rozzo, scorretto ma anche pateticamente comico Johnny Lawrence sono, nel film come nella serie, quelli di William Zabka, attore newyorkese di origine ceca candidato all’Oscar per il miglior cortometraggio (Most) nel 2003. Con quell’aria stropicciata da homeless che non si lava da una settimana, Zabka fornisce un’interpretazione memorabile, alternando in maniera credibilissima momenti di rabbia ottusa ad altri di dolorosa consapevolezza per scelte passate spesso sbagliate. Ma il suo antagonista di sempre, Daniel LaRusso, non è da meno. Invecchiando, Ralph Macchio si è trasformato fisicamente in quella specifica tipologia di persona che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo incontrato e segretamente odiato: il vicino di casa pignolo, zelante, che si tiene in forma, sempre in giacca e cravatta, che aiuta le vecchiette ad attraversare la strada e che ti fa poi gentilmente notare che la musica metal dopo una certa ora sarebbe meglio evitarla per la quiete di tutti, ma te lo dice sorridendo e cercando di convincerti che in fondo non siete tanto diversi. La sua faccia da eterno bambino leggermente avvizzito è perfetta perché ci venga voglia di colpirla con un calcio circolare e il suo ruolo è quello di un vincente verosimile. Il turning point del primo film gli ha fatto cambiare vita e guadagnare punti con l’altro sesso, ma non è che ora lo troviamo alla Casa Bianca o come Governatore della California: è invece il proprietario di un concessionario auto a L.A., ha una bella casa con piscina, una moglie assertiva ma non troppo e due figli di cui uno obeso che sta sempre attaccato ai videogiochi e lo tratta come uno sfigato. Il tempo e le normali vicissitudini lo hanno inoltre trasformato in un uomo capace di credersi sempre “il buono” anche quando è, come tutti, roso da invidia o desiderio di vendetta. Ed ecco un’altra grande qualità di Cobra Kai: mostrarci la natura umana in modo lucido e disincantato. I buoni e i cattivi non esistono, il bianco e il nero nemmeno, ognuno ha le sue ragioni per comportarsi come crede giusto. Vasco Rossi non ci fece anche una canzone?
La scrittura
Jon Hurwitz, Hayden Schlossberg e Josh Heald sono i creatori di Cobra Kai. Lo show, per loro stessa ammissione, è il coronamento di un sogno: fan della saga, hanno avuto la possibilità di lavorare a stretto contatto coi loro beniamini, rispettando il contesto di riferimento dei personaggi ma espandendolo in modo credibile e aggiornato alle nuove generazioni (e Netflix ha già annunciato la realizzazione di una quarta stagione). Di più: la visione della serie ha spinto molti (sia neofiti che aficionados di mezza età) a guardare i film della saga di Karate Kid con un occhio diverso. L’arroganza e la spacconeria di Johnny trovano adesso una spiegazione più logica e plausibile alla luce dei flashback sulla sua infanzia visti nelle prime due stagioni. Così come il modus operandi del suo luciferino sensei, Kreese, a cui sono dedicati molti importanti momenti di questa Season 3. Il male assoluto non esiste, c’è sempre una spiegazione che ci aiuta a capire cosa siamo diventati nel tempo. Tutto ciò è reso possibile da un lavoro autoraale di prim’ordine. Anche l’incarnazione della saggezza orientale, Mr. Miyagi, interpretato mirabilmente da Pat Morita, è un personaggio che, come chiunque, aveva dei lati oscuri. Hurwitz lo spiega bene a Collider: «Una delle cose che amiamo della stagione 3 è il fatto che è la prima volta che Ralph Macchio è andato a girare a Okinawa (la patria natale di Miyagi nel film, nda), perché Karate Kid II fu girato alle Hawaii. Così conosciamo meglio Mr. Miyagi. Si trattava di un personaggio con i suoi problemi, se riguardiamo il primo film notiamo che Miyagi inizialmente è riluttante ad insegnare il karate a Daniel, un atteggiamento molto simile a quello che nella serie Johnny ha con il suo pupillo Miguel. Una delle cose che amiamo della terza stagione è che scava un po’ di più nel passato di Miyagi e del suo karate». Il passato che si ripete, del resto, è una costante della serie, come fa notare Heald: «C’è un bellis-simo verso nel brano senza tempo di Joe Esposito You’re The Best Around, che dice che la storia si ripete. È lì perché la canzone venne composta per il film Rocky III, nel quale effettivamente la storia si ripete, lui combatte ancora. Però l’hanno poi usata per Karate Kid, dove in effetti la storia non si era affatto ripetuta. Ma ora, con la stagione 3, possiamo dire che acquisisce ancora più senso».
L’ingrediente nostalgia
Ovviamente l’effetto nostalgia è una parte fondamentale del successo di Cobra Kai. «La nostalgia», spiega lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Merigo, «è un’emozione complessa, dove memoria ed emozione si fondono nel ricordo di qualcosa che ha fatto parte della nostra vita e che ora non c’è più. Ma per quanto possa sembrar strano, la nostalgia colpisce positivamente la nostra emotività, perché richiama il desiderio di tornare in un luogo antico e segreto, ripercorrendo a ritroso le tappe vissute e che, in fondo, sanno di dover lasciar spazio a fantasie e vissuti più recenti. In quel momento, rivedere vecchi protagonisti e vivere le loro storie vent’anni dopo ci riporta al passato con l’occhio del presente e la nostalgia funge da macchina del tempo emotiva. Chi ha vissuto in giovinezza le vicende di Karate Kid, avrà notato che in Cobra Kai il rimando agli anni ’80 è costantemente presente: i ragazzi si picchiano come nei vecchi action movie. I luoghi sono gli stessi, le strade paiono riammodernate ma sostanzialmente uguali al passato. Arriva l’amore, giunge la tragedia, si creano le fazioni e i vecchi nemici tornano amici, raccontando la propria versione dei fatti, ma sempre pronti al passo indietro, perché la rivalità nasce dalle incomprensioni. Il mondo dell’entertainment si fonda sulle emozioni e sugli introiti. Se un prodotto suscita una forte emozione nell’utente, il prodotto vende e funziona. Il potere della nostalgia è proprio quello di riportare nel passato e intrappolare l’utente in un format noto, collaudato, ma rimodernato, che possa piacere ad ampie fette di pubblico». Le reference agli anni ’80 nello show si sprecano: dalle pellicole action di serie B amate da Lawrence a una colonna sonora in cui fa spesso capolino l’hair metal, fino a citazioni metalinguistiche come la rissa in un’autorimessa in cui vengono coinvolti Daniel e Johnny. Il primo indossa un giacchino blu, il secondo una felpa rossa: impossibile – almeno per un 45enne cresciuto mettendo 200 lire nei cabinati dei bar per una partita singola – non riconoscere un riferimento a Double Dragon, mitologico Coin Op della Taito datato 1987 e primo picchiaduro a scorrimento ad avere un successo planetario anche grazie alla possibilità di giocare in doppio scegliendo un personaggio vestito di blu e uno di rosso.
L’uso del cast originale (attenzione: spoiler)
È evidente che il grande successo di Cobra Kai risieda anche nell’impiego del cast originale dei film degli anni ’80. La pratica non è nuova. Penso soprattutto alla trilogia finale di Star Wars, nella quale sono presenti quasi tutte le vecchie glorie dei mitici primi tre film: Harrison Ford, Mark Hamill, Carrie Fisher, Billy Dee Williams. Ma se lì la sensazione generale è di aver sprecato un’occasione, buttando dentro dei settantenni che imbracciano delle pistole laser solo per accontentare i fan, in Cobra Kai l’apparizione di un membro del cast originale è sempre funzionale alla narrazione, mai superflua o ridondante. Oltre a William Zabka e a Ralph Macchio, sono tantissimi i personaggi che, naturalmente invecchiati (spesso sorprendentemente bene), tornano a costellare le puntate della serie. C’è Martin Kove, il già citato Kreese maestro di Johnny; Randee Heller, la madre single di Daniel responsabile del loro trasferimento in California; c’è Elisabeth Shue, la più gnocca del liceo all’origine della faida tra Daniel e Johnny. Ma il caso più toccante è decisamente quello di un episodio della stagione 2 dal titolo Gira a destra, nel quale si riuniscono gli studenti originali: Bobby, Jimmy e Tommy, oltre ovviamente a Johnny. Il motivo è la malattia di Tommy, ormai allo stadio terminale. Gli amici decidono quindi di farlo “evadere” dall’ospedale per un’ultima zingarata, in una nostalgica rievocazione degli anni del liceo e dell’inesorabilità dello scorrere del tempo, resa ancora più struggente dal fatto che Rob Garrison, l’attore che interpreta Tommy, era davvero un malato terminale di cancro. L’episodio si conclude con la morte, avvenuta serenamente tra gli amici di sempre, di Tommy. Pochissimo tempo dopo Garrison muore, non prima di un tweet in cui ringrazia commosso i fan esultanti per la sua partecipazione a Cobra Kai, dove finzione e realtà si confondono. Onestamente è difficile chiedere di più a una serie.