POV: hai creato una saga che polverizza record a ogni suo ritorno (di fiamma) su Netflix e nel cast hai due attrici clamorose come la leggenda del West End Golda Rosheuvel, alias la regina Carlotta, e la scespirianissima Adjoa Andoh, aka Lady Danbury. E ora vuoi – anzi, DEVI – inventarti qualcosa per dare loro un ulteriore palcoscenico (e continuare la moltiplicazione dei numeri). Perché una programmazione ideale di ben otto stagioni (tanti sono i libri, ciascuno dedicato alla love story di uno dei fratelli Bridgerton), di cui due disponibili e altre due già confermate, non basta più. E allora vai di prequel/spin-off e compagnia regnante. Ah, e poi, ovviamente, appendice al POV: vuoi tentare di spiegare il casting color-blind, visto che un semplice “Desideriamo che la serie rifletta il mondo in cui viviamo oggi e, anche se è ambientata nel XXIX secolo, è importante che il pubblico moderno si immedesimi e possa rispecchiarsi sullo schermo”, pronunciato dallo showrunner di Bridgerton Chris Van Dusen, non ha certo convinto i detrattori. E a volte manco i fan.
Così Shonda Rhimes ha deciso di prendere tutti i piccioni dell’universo mondo con una fava. Aggiungiamoci pure tutto quello that Shonda stands for, direbbero gli inglesi: empowerment femminile, diversity, salute mentale. E ta-dan (o meglio tu-dum). God Save the Queen (Charlotte – scusaci Carlo, ma della tua incoronazione è fregato decisamente poco a tutti). Di Bridgerton qui c’è solo Violet, che ancora Bridgerton non è: da ragazzina il suo cognome è Ledger, ed è una cocca di papà. Peccato che il papà… vabbè, non spoileriamo. Anche perché qui il cuore della storia è un altro: La regina Carlotta: Una storia di Bridgerton torna alle origini, e cioè a quando una giovanissima nobile tedesca viene catapultata in un’Inghilterra decisamente non pronta al colore della sua pelle per sposare re Giorgio III, che nasconde un segreto così pesante da far tremare un Impero. E poi si precipita di nuovo nel presente (Regency) e cioè nel periodo in cui Sua Maestà, nonché maestra delle parrucche pazzissime, vuole (anzi, pretende) un nipote, per assicurare un erede alla dinastia del marito.
In mezzo ci sono matrimoni combinati, gravidanze obbligate, medici ambigui, pettegolezzi (Lady Whistledown is in da house) i “soliti” quartetti di archi che coverizzano canzoni pop (con Beyoncé che va per la maggiore, ma dai), intrighi, pomeranian, décor e abiti a profusione. E poi c’è la storyline di Agatha Danbury, sposata a un uomo molto più anziano di lei, che ottiene il titolo proprio quando Charlotte diventa regina, come parte del “Grande Esperimento”: visto che the queen ha origini africane, Buckingham (nella persona della madre del re, alias la Michelle Fairley di Game of Thrones) e le Houses of Parliament cercano di integrare diverse etnie tra le fila della nobiltà. Di malavoglia, ovviamente. Ma è la rivoluzione (?). Al punto che Lady Danbury, dopo la morte del consorte, ne manterrà i privilegi. E Giorgio, tutto orgoglioso, dirà alla moglie: “Abbiamo fatto più passi avanti tu e io in una sera a una festa di quanti di ne abbia fatti la Gran Bretagna nell’ultimo secolo”. Certo. Infatti la domanda: “Basta una relazione interrazziale a risolvere il problema del razzismo (tra duchi e visconti british, poi)”? nell’universo di Bridgerton resta ancora lì, forse anche più sospesa. E comunque la risposta è no, citofonare Harry e Meghan.
Non si può negare però che la mano abilissima e überpop (e soap) di Shonda si veda, eccome, nel delineare quella che in fondo è una love story contro tutto e tutti, pure la mente di lui: la scrittura è certamente più profonda, più sfumata rispetto alla serie madre e, pure nello spirito leggero della rom-com d’epoca, ci sono momenti cupi e scene commoventi, senza che manchi mai una dose qb di erotismo, dopo che il termometro della precedente stagione era sceso sotto il livello di guardia per le spettatrici orfane del (ehm) sopracciglio del Duca di Hastings (Regé-Jean Page). Altro plus, un super casting per l’armonia (non solo fisica, ma anche e soprattutto espressiva) che ha saputo trovare tra le incarnazioni più giovani e quelle più attempate dei personaggi. India Ria Amarteifio è la controparte perfetta, fiera e fragile insieme, della sempre meravigliosa Rosheuvel. E la sua chimica con il giovane Giorgio (Corey Mylchreest, dotato di zigomo reale) va oltre le aspettative (è il minimo, direte voi; sì, ma no): “L’amore è determinazione, l’amore è una scelta”, dirà lei.
Menzione d’onore poi per Arsema Thomas, che ci restituisce una versione appassionata e vibrante della Danbury sagace e cinica di Adjoa Andoh: “We are untold stories”, spiega proprio Andoh a Violet Bridgerton (Ruth Gemmell), quando quest’ultima le confessa che, insomma, nonostante l’età la sua libido è tutt’altro che spenta (per dirla à la Bridgerton: “My garden is in bloom”; a Emma Thompson piace questo elemento). Impossibile dimenticare anche l’adorabile coppia formata dai rispettivi valletti del re e della regina: grandi amori anche ai piani bassi, come ci ha insegnato Downton Abbey. E lista della spesa inclusiva della Piattaforma spuntata.
Poi, se storia occasionalmente vera e empowerment femminile dev’essere, noi continuiamo a preferire la corte russa stile Animal House e la Caterina di Elle Fanning in The Great. Ma questa è, letteralmente, un’altra Storia.