Il titolo non è del tutto mio, lo sottolineo per onestà intellettuale: qualche giorno fa, chiacchierando con un amico, abbiamo lungamente discusso di questo nuovo filone inaugurato da cinema e serie, il filone scammer o truffatori che dir si voglia. Lui a un certo punto, a mo’ di battuta, se ne esce con un «Chissà, magari ci piace proprio essere fottuti, in ogni senso», e io ho pensato che non fosse un caso, che probabilmente in una boutade del genere c’è un fondo di serietà e verità in grado di spiegare il successo dei vari Fyre – La più grande festa mai avvenuta, Inventing Anna, Il truffatore di Tinder, Bad Vegan – Fama, frode e fuggitivi (Netflix); WeCrashed (appena arrivata su Apple TV+); The Dropout (uscirà il prossimo 20 aprile su Disney+); Dopesick – Dichiarazione di dipendenza (sempre Disney+).
I casi sono diversi, sia chiaro, in ordine abbiamo rispettivamente: le vicissitudini di Billy McFarland, che aveva promesso un festival musicale di super lusso alle Bahamas e ha rifilato agli astanti tende da quattro soldi, panini mollicci e (poche) bottigliette d’acqua. Una finta ereditiera russa (Anna Delvey, interpretata da Julia Garner) con un finto fondo fiduciario che si fa prestare soldi da mezza Manhattan salvo poi finire sul lastrico. Un latin lover israeliano, Shimon Hayut, che millanta una vita principesca e conquista frotte di donne su Tinder, convincendole a elargirgli prestiti via via più ingenti. Una chef vegana crudista sulla cresta dell’onda, Sarma Melngailis, che trasferisce illegalmente il denaro del proprio ristorante al marito in modo da pagare una divinità per conferire l’immortalità alla famiglia – cane compreso – e (blasfemia delle blasfemie!) viene beccata a mangiare una pizza. Una coppia di pazzi mitomani (Adam Neumann e Rebekah Paltrow Neumann, che hanno il volto di un Jared Leto pericolosamente somigliante a Loki e di Anne Hathaway), co-fondatori nonché carnefici del colosso di co-working WeWork. Un’imprenditrice con manie di protagonismo e d’onnipotenza (Elizabeth Holmes, impersonata da Amanda Seyfried), fautrice – secondo lei – di una tecnologia per le analisi del sangue che avrebbe potuto rivoluzionare la sanità: be’, non era vero un tubo. Una casa farmaceutica, la Purdue Pharma, che lancia sul mercato statunitense un potente antidolorifico, l’Oxycontin, omettendo e falsificando informazioni cruciali rispetto all’assuefazione e alla dipendenza che lo stesso procurava.
Casi diversi, scrivevo, ma con un minimo comun denominatore, ossia il Paese ove le truffe hanno luogo. È emblematico e rivelatore che gli scammer per antonomasia siano americani e non europei: soltanto in un continente privo di Storia – o, meglio, con una Storia piuttosto recente – puoi inventarti di essere chi vuoi senza che nessuno batta ciglio. Soltanto negli Stati Uniti puoi essere un poveraccio fino al giorno prima e poi macinare milioni di dollari quello successivo senza che nessuno si scandalizzi o si ponga un paio di domande in più. Soltanto negli Stati Uniti vieni posseduto da questa smania di arrivare, di sfondare, di farcela, che ti fa dimenticare qualsiasi cosa: l’avvedutezza, la coerenza, il rispetto, la dignità. Soltanto negli Stati Uniti sei solo come un cane pulcioso, e la solitudine ti spinge sì ad avere intuizioni geniali, ma ti rende pure un mezzo sociopatico. Luca Bizzarri su Twitter commenta ogni schianto degno di nota con la domanda che mai fu più puntuale: «Ma questo non ha un amico?». Ebbene, tutti gli amabili (chi più e chi meno) truffatori si circondano di sanguisughe che godono nell’osservare sia la loro ascesa alle stelle che la loro caduta alle stalle, e che non muovono un dito per consigliarli, sostenerli, metterli in guardia.
Si tratta di un circolo vizioso in cui ognuno fa il suo gioco, e in cui chiunque vuole diventare ricco da far schifo. Vuole diventare ricco lo scammer, che rifila delle ciofeche alla gente sperando di farla scema e di non venire sgamato. Vuole diventare ricco l’investitore, sperando di puntare su colui o colei che si rivelerà l’astro nascente della new economy o che trasformerà il campo artistico, sanitario, farmaceutico o musicale. Vuole diventare ricca la vittima della truffa, sperando di vederla più lunga degli altri, di arrivare per prima, di esibire un dito medio su Instagram da un’assolata spiaggia dominicana rivolgendosi a noi, i polli che non hanno avuto il coraggio di scommettere i propri soldi su una fonte di guadagno (sulla carta) sicura.
Alla base c’è il desiderio di essere visti, acclamati, invidiati, ammirati: un desiderio parecchio umano, sia chiaro, che non giustifica ma spiega efficacemente gli istinti che muovono le azioni delle parti coinvolte. La fregola crea mostri e insieme accieca (un mio ex capo molto lungimirante affermava che «la fretta passa, la merda resta»), rendendoci in un certo senso tutti colpevoli della singola truffa: proviamo piacere perverso nel fottere il prossimo e nell’essere fottuti, e c’è chiaramente un’implicazione sessuale in questo discorso che non devo certo stare qui a spiegarvi.
Se non a farci fregare, almeno un’altra regola d’oro l’abbiamo imparata: ossia che, narrativamente parlando, lo scammer non va minimamente scusato o smussato, ma occorre dipingerlo così com’è, un narcisista, arrivista ed ego-riferito preda di svariate ossessioni – grandezza in primis – che non si fa il minimo scrupolo a schiacciare il prossimo. In tal senso, ben vengano WeCrashed, The Dropout e Dopesick: i protagonisti sono orribili e indifendibili; non esistono traumi infantili, passati difficili o turbe adolescenziali capaci di indebolire il loro carico di responsabilità, anzi. Difenderli in qualche modo puzzerebbe di un buonismo facile e falsissimo, al limite (per l’appunto) della fregatura: vedi alla voce Inventing Anna, che è l’unico caso di frode perpetrata pure televisivamente. Accidenti a te, Shonda Rhimes: avevi tra le mani la storia della vita e ci hai appioppato la peggiore boiata, vendendocela manco fosse la serie dell’anno. E questa sì che è una truffa con tutti i sacri crismi.