“Qui c’è solo brutalità.”
Questa è una frase tratta da una lettera che un capitano dell’esercito americano, interpretato da Lucas Neff, scrive ai suoi cari rimasti a casa, a metà della nuova miniserie Netflix American Primeval. È un’affermazione appropriata, anche se non sorprendente, visto che la serie è stata creata dallo sceneggiatore di The Revenant, Mark L. Smith. Smith ha scritto un racconto che confonde ripetutamente la sofferenza con la profondità e sembra provare più piacere nel trovare modi disgustosi per uccidere i personaggi che nel renderli abbastanza interessanti da indurre gli spettatori a interessarsene quando muoiono.
Lo show mescola personaggi storici con altri di fantasia, mettendoli tutti insieme in Utah intorno al 1857. Iniziamo con Sara (Betty Gilpin) e suo figlio Devin (Preston Mota) che si dirigono a ovest per ricongiungersi con il marito di lei, anche se non è chiaro se lui li aspetti o addirittura ne desideri l’arrivo. Jim Bridger (Shea Whigham), un cacciatore di pellicce che ha fondato un fiorente polo economico partendo da una fortezza che ha chiamato con il suo nome, avverte Sara che un simile viaggio è, nella migliore delle ipotesi, avventato e che molto probabilmente ucciderà lei e Devin. Quando l’enigmatico uomo di montagna Isaac (Taylor Kitsch) rifiuta di fare loro da guida, Sara si unisce a un gruppo più numeroso che viaggia nella stessa direzione, che include Jacob (Dane DeHaan) e Abish (Saura Lightfoot Leon), una giovane coppia mormone, che vuole unirsi a Brigham Young (Kim Coates) e al suo gregge. Le situazione degenera rapidamente in una violenza grafica e presto la narrazione si divide tra Isaac che cerca di portare in salvo Sarah, Devin e una ragazza muta di nome Two Moons (Shawnee Pourier) e le crescenti tensioni tra l’esercito, la milizia di Young e i membri della tribù degli Shoshoni.
La performance sarcastica di Whigham e il fatto che Bridger offra ripetutamente consigli sensati a chi li ignora, sempre a proprio rischio e pericolo, non sono quello che definireste divertenti. Ma è il massimo che American Primeval possa offrire per alleviare la miseria. Tutto il resto è, be’, brutalità fine a se stessa, comprese molteplici aggressioni sessuali, un personaggio che viene scalpato in primo piano e altri esempi di violenza esplicita. La violenza è ben orchestrata dal regista Peter Berg, che collabora con Kitsch per la quinta volta, dallo show televisivo Friday Night Lights, che ha un talento nel trovare modi interessanti e non convenzionali per rappresentare l’azione, come il modo in cui una raffica di frecce sembra e suona come un evento apocalittico.
Ma il talento tecnico di Berg non riesce a valorizzare il materiale, che è così magro da lasciare persino un cast tanto talentuoso un po’ alla deriva. Sono passati solo pochi mesi da quando Three Women di Starz ha dimostrato quanto Gilpin possa essere efficace in un progetto dalla scrittura incerta. Qui, le viene semplicemente chiesto di soffrire stoicamente, cosa che può fare, ma che sembra uno spreco totale di tempo. Come purtroppo è accaduto troppo spesso nella sua carriera, a DeHaan vengono dati un sacco di strani tic e gli viene chiesto di creare un personaggio a partire da lì. Ma in nessun momento la relazione tra Jacob e Abish (o loro come individui) è sufficientemente solida da far sì che la sua ricerca abbia un qualche impatto. Kitsch tocca anche note che gli sono già state chieste in progetti migliori, mentre sussurra e rimugina sulle tragedie del passato di Isaac.
Anche se all’inizio le due storie principali sembrano intrecciate, ben presto non hanno più nulla a che fare l’una con l’altra. Non è chiaro il motivo per cui siano incluse nella stessa serie, se non per dare modi diversi di illustrare il concetto più ampio e fin troppo familiare di Smith su quanto crudele, cattivo e spietato possa essere il West. E, a quanto pare, qui c’è anche un po’ di noia.