Farabutti, assassini, grandissimi cornuti. Questo vedono gli occhi di Montalbano-Zingaretti – bellissime le sue parole sui social – sui muri del commissariato di Vigata. Salvo ne parla con Mimì Augello, suo braccio destro e puntello nelle indagini e per la coscienza. Il commissario gli confessa “sì, me ne voglio andare. Hai letto i giornali? Ad assaltare la scuola, in quella caserma, a fabbricare prove false, false… non c’è stato qualche agente isolato, ignorante, violento… no! C’erano questori, vicequestori, capi della mobile e compagnia bella…. Mi sono amminchiato”. Augello gli fa eco: “Ti senti tradito dall’istituzione in cui avevi più fiducia”. E lui reagisce: “Non mi sento tradito. Sono stato tradito! Fabbricare prove false… oohh! Ma sai quale è la cosa peggiore? Che prima di Genova c’era stata Napoli. E lì il governo era di un altro colore. Che la lordìa è qui, nella polizia”. Augello lo richiama all’ordine. “Un tuo addio sarebbe un tradimento contro tutti gli altri poliziotti onesti come noi, che con quei quattro farabutti non abbiamo nulla a che fare. Andartene significherebbe sbattere la porta contro chi è per bene”.
Montalbano resterà al suo posto, ma in queste righe scritte con Francesco Bruni – fenomeno della sceneggiatura, straordinario nel lavorare sulle parole del maestro assieme a Salvatore de Mola –, mondate delle invettive politiche contro Berlusconi presenti nel romanzo da cui fu tratto quell’episodio del commissario che continua a fare ascolti record anche all’ennesima replica, Il giro di boa (Sellerio, 2003) c’è tutto Andrea Camilleri, che si è spento nelle scorse ore a Roma all’età di 93 anni.
Se ci chiediamo come un uomo di così alta cultura possa aver scritto per la tv e poi essere divenuto icona pop, dobbiamo cercare il motivo tra queste righe. Vibranti, potenti, oneste, spiazzanti, coraggiose, capaci di interpretare il sentire comune di un popolo oltre le fazioni, di spiegare a cuori sgomenti e anime incazzate ciò che le turbava di quella tortura di stato, di quella repressione infame che fu il G8 di Genova. Camilleri, nella sua produzione alta come in quella più popolare, era la voce della coscienza collettiva e critica di questo Paese, una sorta di Umberto Eco dei povery, uno dei rari intellettuali totali capaci di vivere e analizzare il presente, troppo curioso della vita e del mondo per crogiolarsi nell’ambizione di risultare genio incompreso, anche a costo di non veder riconosciuta a pieno la sua statura creativa, artistica, politica, narrativa.
Il suo Montalbano ha attraversato il periodo più buio del proprio Paese, illuminandolo senza accecarlo, ne ha nobilitato i tempi pur non blandendoli. Il commissario era, anzi è – lui non morirà mai, o forse sì, visto che Camilleri ha sempre dichiarato di avere nel cassetto l’ultimo romanzo dedicato al buon Salvo, da pubblicare rigorosamente dopo la dipartita dell’autore – un Alberto Sordi che impedisce l’immedesimazione al lettore e allo spettatore, severo con le fragilità altrui pur non rinunciando mai a comprenderle, viverle, attraversarne le contraddizioni. La commedia all’italiana che incontra il cinema d’autore più riflessivo per concedersi al popolo, senza pudori, parlando una lingua a suo modo aulica e accessibile. E lui, Camilleri, era Collodi.
Per anni ci ha accompagnato con un feuilleton fatto di episodi autoconclusivi perfettamente complementari tra loro, ma il commissario non era solo la sua creatura più fortunata, che pur coccolava senza relegarla snobisticamente in un angolo come altri fanno con le canzoni più celebri, i film che hanno incassato di più, i volumi più venduti. Era un Tomasi di Lampedusa senza la decadenza aristocratica, era uomo di teatro formatosi alla dura scuola di Orazio Costa, di cui fu aiuto regista, e con un passato doloroso e turbolento all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, dove tornò come professore amatissimo, forse per esorcizzare le rabbie e le cadute da studente.
Era Tiresia, come attore, il tebano cieco che vedeva con le parole, un’immedesimazione sublime. Stava preparando Autodifesa di Caino, previsto l’altroieri alle Terme di Caracalla, poi annullato per via della malattia. Ci ha insegnato ad amare le parole, la sua droga, da funzionario Rai addetto alla prosa radiofonica.
Tutto in lui è stato straordinario. Ha esordito nella narrativa a 53 anni, lui che non fece gli esami di maturità a causa dei bombardamenti e dell’imminente sbarco alleato. Lo raccontava con il gusto del bambino discolo, sottolineando l’ironia delle tragedie, così presente nei suoi racconti. Voleva smettere dopo il secondo libro, fu Elvira Sellerio, la sua editrice, a farlo desistere. Il successo arrivò in piena età da pensione – gli ultimi 25 anni dei 93 – e forse per questo irrideva chi lo chiamava maestro e apprezzava chi con irriverenza lo contraddiceva, pur fulminandolo con battute e analisi straordinarie.
Era raffinato, lo capivi da come cesellava il vigatese, da come ritraeva i siciliani, amatissimi e odiatissimi, dal modo in cui sezionava la realtà, nei romanzi e nelle interviste. Poteva essere Moravia o Svevo, ma ha scelto la strada di Pirandello. Quella di affrontare la letteratura, il teatro, la comunicazione, non rinunciando alla modernità, senza blandirla, come faceva con tutti noi. Forse, semplicemente, era il Seneca dei nostri tempi e non ce ne siamo accorti, di sicuro non se n’è accorto lui. L’inconsapevolezza di sé e della sua grandezza – lo vedevi nel modo quasi infantile con cui affrontava i prologhi televisivi dei suoi episodi inediti, infarcendoli di autospoiler – lo ha reso spontaneamente geniale, oltre che longevo.
Andrea Camilleri si sarà presentato dall’altra parte ridendo e dicendo “Montalbano sono”, nome scelto in onore di un altro come lui, pop e raffinato, Manuel Vazquez Montalban, divenuto amico e sodale. E se ci sta leggendo, lo tranquillizziamo: questo non è un coccodrillo – “chissà da quanto lo avete scritto, voi altri” scherniva i giornalisti –. Maestro, al massimo è un cane di terracotta.