Sin dal primo episodio della terza stagione di Atlanta si ha la costante sensazione di ritrovarsi in un romanzo di Paul Beatty. Lo scrittore californiano, vincitore del Man Booker Prize nel 2016 per Lo schiavista, è conosciuto per la sua grande capacità di utilizzare e ribaltare i dogmi della cultura afroamericana attraverso situazioni apparentemente “surreali” che diventano funzione per analizzare lo stato attuale della questione razziale in America.
Come detto da Michael Schaub su Npr, la trama dei suoi libri è chiaramente surreale e satirica, ma deve esserlo poiché – in un’era in cui si parla ancora di un’ipotetica “America post-razziale”, dopo la presidenza Obama, in modo non ironico – è difficile non ridere o piangere per quanto sia diventata bizzarra la conversazione nazionale sulla razza. Nello Schiavista, ad esempio, Bonbon, figlio di un luminare afroamericano ideatore della Psicologia della liberazione basata principalmente su test attitudinali somministrati al figlio attraverso elementi culturali dalla politica all’intrattenimento (servilismo e obbedienza nella generazione hip-hop), dopo la morte del padre decide che l’unico modo per ripotare “lustro” alla propria comunità ghetto di Dickens a Los Angeles, rimossa da ogni cartina, sia reintrodurre la segregazione razziale.
Come nei romanzi di Beatty, anche in Atlanta il tema narrativo centrale si manifesta attraverso il ribaltamento del razzismo implicito nello sviluppo della carriera musicale di Al, alias Paper Boi, guidato da suo cugino Earnest nella costruzione del suo successo prima nella nativa Atlanta e successivamente nel suo primo tour europeo. Gli esempi di questi effetti si rivelano in più occasioni attraverso avvenimenti espliciti, come il coinvolgimento di Al nel riabilitare un noto brand di moda francese dopo le accuse di razzismo per aver ideato un felpa con su scritto “Central Park 5”. Al è sorpreso di trovarsi investito della possibilità di realizzare qualcosa di concreto come parte del diversity partnership board della casa di moda, ma poi scoraggiato nel rendersi conto di esser stato coinvolto unicamente per ripulire l’immagine del marchio dove gli stessi attivisti e influencer ingaggiati sono più interessati a un guadagno personale che a creare una reale opportunità d’investimento per giovani designer afroamericani: «Perché un’azienda dovrebbe realizzare un progetto che insegni ai neri a smettere di acquistare i loro prodotti e reinvestire nei propri?».
Allo stesso tempo, si manifestano anche con elementi metaforici quasi da teatro dell’assurdo. Nella prima puntata della nuova stagione due uomini, completamenti distaccati dalla narrazione centrale, discutono della fantomatica leggenda legata a una città sorta nei primi del ‘900 che ad oggi si trova proprio sotto il lago che stanno navigando in Georgia. «Tutto questo lago era una città. Case, fienili, strade. Il governo statale ha costruito una diga e ha inondato il luogo. Le persone che non se ne sono andate sono annegate. Anche la città era nera. Una città nera autogovernata».
Come riportato dalla giornalista Jaelani Turner-Williams su Okayplayer, sebbene nell’episodio non venga specificato il nome del lago, si tratta del bacino idrico di Lake Lanier, l’ex comunità di Oscarville nella contea di Forsyth che nel settembre 1912 fu lo scenario di una violenta pulizia razziale. Secondo la storia, la contea di Forsyth (popolata da quasi 1.110 residenti neri) dopo la sua distruzione venne scelta appositamente nel 1950 per la costruzione del bacino in modo da rimuovere silenziosamente la sua storia. «Una città così piena di gente nera che erano quasi bianchi. Bianco è dove ti trovi, con sangue e denaro a sufficienza chiunque può essere bianco». Ogni elemento viene volutamente estremizzato attraverso una satira orrorifica.
Atlanta rappresenta probabilmente il testo più rappresentativo di questo periodo storico/culturale. L’ampiezza tematica della serie e la sperimentazione strutturale antologica la rendono degna sia di un attento esame a sé stante che di un esame comparativo con altri prodotti contemporanei, come la restaurazione del cinema horror da parte di Jordan Peele (Scappa – Get Out, Noi – Us). In una conferenza stampa per la presentazione della prima stagione, a Donald Glover fu chiesto del tono spesso mutevole della serie: «La tesi della serie era mostrare alla gente come ci si sente ad essere neri», ha replicato, «e non puoi davvero scriverlo. Devi sentirlo. Quindi l’aspetto tonale era davvero importante per me».
Se nelle prime due stagioni il focus sonoro era basato sulla rappresentazione musicale e sociale di Atlanta, con la scelta di mostrare la naturale espressione della città stessa dove le ambientazioni sono gotiche e spettrali, c’è violenza nell’aria e i conflitti emotivi diventano ancor più crudeli, la supervisione di Jen Malone, nel trasporre musicalmente il racconto del tour europeo di Paper Boi (il personaggio di Glover), si concentra ora sulla rappresentazione musicale di quegli artisti afroamericani che più sono stati sfruttati artisticamente dall’immaginario culturale europeo. Infatti, secondo la giornalista e scrittrice del New Yorker Doreen St. Félix, la terza stagione di Atlanta si concentra principalmente nel mettere in risalto lo sfruttamento del successo commerciale degli artisti afroamericani come elemento di oppressione.
Questo elemento viene ampiamente dimostrato all’interno di un articolo apparso su Forbes nel 2021 redatto dalla giornalista Janice Gassam Asare. Secondo Asare, «negli ultimi anni, l’ascesa di frasi e hashtag come #blackgirlmagic e #blackexcellence ha guadagnato popolarità e importanza. Una rapida lettura dei social media porterà gli utenti a milioni di post taggati che approvano l’eccellenza afroamericana; la promozione dell’eccezionalismo afroamericano è dilagante. È l’idea che gli afroamericani istruiti e intelligenti siano atipici o rari tra la popolazione in generale. Le barriere sistemiche nel corso della storia hanno reso più difficile per gli afroamericani ascendere e avere successo. In questo senso, è importante mostrare coloro che sono stati in grado di avanzare nonostante le probabilità insormontabili create dal razzismo globale».
«I sostenitori dell’eccezionalismo afroamericano affermano che la rappresentazione è importante ed è vitale da mostrare», prosegue l’autrice. «Il simbolismo di un presidente afroamericano e di altri primati evidenziati dai media sono un modo di grande impatto per mostrare ai bambini afroamericani cosa è possibile, ma in che modo l’ossessione della nostra società per l’eccezionalismo nero è effettivamente dannosa? L’idea che essere eccezionali proteggerà in qualche modo i neri dalla discriminazione e dal razzismo è un errore. Spesso i neri che sono considerati “eccellenti” sono iper esaminati e penalizzati per la loro eccellenza».
La musica di Paper Boi non viene quasi mai riprodotta all’interno della stagione, ed è vissuta principalmente attraverso la visione dei suoi fan. In una scena stranamente toccante a Budapest che coinvolge un fan bianco squilibrato, Paper Boi pronuncia un monologo sul suo blocco creativo: «È come se non sapessi più cosa è buono o cattivo. Se la razza è una performance, cosa succede quando una persona afroamericana rifiuta il ruolo che gli è stato assegnato? I neri che si rifiutano di “eseguire” o di far estrarre il loro lavoro sono diffamati, vittimizzati e virtualmente molestati». Come scrive James Poniewozik sul New York Times, «improvvisamente siamo tornati sul lago, dove non importa quanto tu pensi di essere al sicuro oggi: quei fantasmi della storia possono sorgere per trascinarti sotto. Siamo in un diverso tipo di storia dell’orrore, in cui il lato oscuro non esaminato di persone presumibilmente tolleranti può colpire duramente come evidente atto di ostilità».
Come raccontato dal regista della serie Hiro Murai al Los Angeles Times, paragonando la terza stagione alla struttura di un concept album: «Tutto ciò che facciamo nella serie viene fuori da ciò che accade naturalmente nella writers’ room e con Donald (Glover, nda). Penso che avessero molte storie da raccontare e cose su cui riflettere mentre erano lontani da casa, in viaggio. È una parte così importante dell’essere un musicista. C’è qualcosa di molto particolare nel girare l’Europa, per tutti gli elementi culturali che ci sono, ma stai anche portando la musica afroamericana in una terra diversa, quindi la storia è stata naturalmente pensata secondo quella prospettiva».
«Penso che il nostro approccio sia sempre stato questo: scriviamo la serie come una commedia e la giriamo come un dramma», continua Murai. «Nascondi le battute sotto la realtà che mostri, sperando che le battute possano fondersi con cose che sono scioccanti, sorprendenti o orribili. Abbiamo decisamente adottato lo stesso approccio per l’Europa, ma intrinsecamente è diventata una stagione diversa a causa dell’ambiente in cui ci trovavamo. E anche alcune delle storie che stavamo raccontando sono un po’ più accentuate. La serie si concentra sulla “maledizione del bianco”. Vogliamo fare di più che dire che i bianchi sono cattivi; vogliamo esplorare come il discorso sulla razza sia diventato così esplosivo».
Anche se Atlanta è una serie traboccante di molteplici vie narrative, Hiro Murai e gli altri registi della serie (incluso Glover) presentano il tutto sotto una foschia leggermente onirica, dando la sensazione che le storie possano andare ovunque. Ma, come detto da Alan Sepinwall su Rolling Stone US, Atlanta riesce a mantenere entrambi i punti di vista per la maggior parte del tempo. Esaminato da vicino, ogni episodio sembra avere poco a che fare con il successivo. Da lontano, però, Glover e compagni stanno raccontando storie più grandi. Atlanta è come un puzzle che si assembla davanti ai nostri occhi. Atlanta è ovunque, Atlanta è uno stato mentale.