C’è un episodio di Willy, il principe di Bel-Air – la sitcom anni ’90 che ha lanciato la carriera d’attore di Will Smith e prodotto miriadi di gif danzerine: se avete nostalgia o siete troppo giovani, sta tutta su Netflix – che quasi tutti ricordano, soprattutto gli spettatori afroamericani: è il ventiquattresimo della quarta stagione, quello in cui Willy ritrova il padre che l’aveva abbandonato da bambino. Improvvisamente, Willy si trasforma in un ragazzino entusiasta del suo papà, spariscono tutte le pose cool, e i due iniziano a fare progetti; senonché, con triste prevedibilità, alla fine il padre lo molla, un’altra volta, con una scusa qualunque: è a questo punto che Smith, confrontandosi con zio Phil, si lancia in un monologo – parzialmente improvvisato – esasperato e dolorosamente autentico sulla propria infanzia senza padre, e la puntata si chiude sul silenzio (e le lacrime dell’attrice che interpreta zia Vivian: se riguardate la scena si sentono distintamente).
La scena è talmente celebre che ha generato diverse leggende metropolitane, prima fra tutte quella secondo cui Will Smith non stesse recitando, ma si stesse rivolgendo al suo vero papà, che divorziò dalla madre quando lui aveva 13 anni. E anche se non è vero (il signor Smith è rimasto sempre nella vita di Will), questa sequenza resta un punto di svolta nella storia della rappresentazione black negli USA: la “realtà” di migliaia di ragazzi neri, per cui crescere con la sola madre è un’eventualità ricorrente per varie ragioni, irrompeva improvvisamente in una sitcom mainstream, fino a quel momento leggera e scanzonata (anche se, a pensarci bene, la premessa stessa di Willy, il principe di Bel-Air è tutt’altro che innocua e rassicurante: Willy viene spedito a Bel-Air dalla pericolosa periferia di Philadelphia per evitare che “quei vichinghi laggiù” gli spacchino le ossa, o peggio).
C’è una specie di contraddizione che agita la presenza nera nella tv statunitense, diretta discendenza dell’oppressione sistemica e silenziosa che o cancella gli afroamericani o li incasella negli stessi triti stereotipi: vogliamo raccontarla, quella verità che in prima serata non si vede mai? Gli effetti di quel sistema oppressivo fatto di razzismo, ghettizzazione, povertà, criminalizzazione, brutalità della polizia? E se poi, facendolo, ricadiamo in altri stereotipi?
Siccome la storia è ciclica – o meglio: fa qualche passo avanti, e poi il doppio indietro –, un’occhiata alla storia della tv rivela che, prima di arrivare a oggi, ci sono state almeno due golden age per la rappresentazione delle persone nere nella tv americana. La prima tra anni gli ’60 e i ’70, in concomitanza con le sollevazioni per i diritti civili: da Bill Cosby co-protagonista delle Spie alla rivoluzionaria figura di Uhura in Star Trek; fino a Julia, la prima serie con protagonista una donna nera e single (e non uno stereotipo da minstrel show come la precedente Beulah), e a Good Times, raro caso di famiglia afroamericana televisiva non borghese; passando per la presenza nel cast fisso di interpreti neri in serie di grande successo come Mission: Impossible e Ironside. La seconda ondata è arrivata tra gli anni ’80 e i ’90, con l’esplosione della black sitcom, cominciata con il gigantesco successo dei Robinson: Otto sotto un tetto, Living Single, Tutti al college, Sister Sister, Martin, Roc, The Sinbad Show, Moesha, The Wayans Bros. e moltissime altre, compresa ovviamente quella da cui abbiamo cominciato, Willy, il principe di Bel-Air. Non tutte sono arrivate in Italia con la stessa fortuna, ma chi era un ragazzino negli anni ’90 e passava le giornate davanti alla tv ricorda allo stesso modo famiglie americane nere e famiglie americane bianche. L’obiettivo dichiarato di Cosby, con I Robinson, era proprio fare una sitcom per tutti, su una famiglia “normale”, dimostrando che l’americano medio, di qualsiasi etnia fosse, avrebbe potuto identificarsi anche con una famiglia borghese nera.
La cosa “buffa” è che anche la black sitcom, così come succede a tanti quartieri neri metropolitani, viene sottoposta a gentrification: utilizzata dal canale Fox, allora agli inizi, come serialità nuova, moderna, fresca per strappare pubblico agli altri network e conquistare spettatori giovani, è via via sostituita da omologhi quasi completamente bianchi e dirottata su canali specificamente dedicati al pubblico nero (tipo BET, Black Entertainment Television). Così che ci si ritrova nel nuovo millennio a leggere ancora una volta deprimenti statistiche di sotto-rappresentazione (da un lato e dall’altro dello schermo, ovviamente).
E se ci venissero dubbi sugli intrecci tra battaglie antirazziste e televisione, pensiamo a Roots (Radici in italiano), la miniserie tratta dal romanzo di Alex Haley, saga che comincia con la storia di Kunta Kinte (un giovane LeVar Burton), guerriero reso schiavo a metà Settecento, e prosegue fino agli anni successivi alla Guerra civile americana. Negli Stati Uniti fu un evento incredibile, che incollò allo schermo tra i 130 e i 140 milioni di telespettatori, praticamente la metà della popolazione: bianchi e neri riuniti attorno allo stesso “focolare domestico” per condividere finalmente una parte cruciale della storia americana fino a quel momento taciuta, ignorata o direttamente cancellata.
Oggi pare esserci una nuova golden age di serie black, e non solo: anche altre esperienze, ancor meno rappresentate, come quella asiatica e musulmana, o altrettanto stereotipate, come quella latinoamericana, hanno finalmente produzioni televisive che le vedono protagoniste (esempi? Master of None, Fresh Off the Boat, Non ho mai…, Ramy, Vida). Secondo una doppia direzione, che corrisponde alla solita doppia contraddizione: da un lato la sacrosanta ricerca di visibilità ed empowerment, dall’altro la necessaria messa in scena delle proprie specificità, anche problematiche.
Nel primo caso, rendiamo grazie a Shonda Rhimes, “la regina della tv”. Le sue Scandal e Le regole del delitto perfetto hanno visto finalmente protagoniste assolute, e su un canale generalista, donne nere di grande successo, con personalità lager than life, insomma eroine televisive a tutti gli effetti. Tutto è cominciato prima, però, con Grey’s Anatomy e la scelta di cercare gli attori attraverso un blind casting: cioè senza indicare, in fase di sceneggiatura, l’etnia dei personaggi. È così che alle audizioni si sono presentati attori diversissimi, e anche se i protagonisti principali della serie, Meredith e Derek, erano pur sempre una donna e un uomo bianco, a circondarli finalmente c’era un gruppo di caratteri etnicamente variegati e, insieme, slegati da ogni stereotipo etnico. L’intrattenimento puro e coinvolgente delle serie “made in ShondaLand” ha un successo di pubblico enorme e trasversale. In questo gruppo mettiamoci anche Empire di Lee Daniels: una vera soap, una versione aggiornata di Dallas con strizzate d’occhio al Re Lear, ma ambientata nell’industria discografica hip hop newyorkese, anziché tra pozzi di petrolio del Texas, con una rivendicazione della blackness – anche nei suoi stereotipi – fiera e irriverente.
Per il secondo caso – racconti realistici, originali, incredibilmente specifici -, rendiamo grazie invece alla Peak Tv, l’evoluzione dello scenario televisivo degli ultimi anni che, tra piattaforme streaming e moltiplicazione dei canali, ha incrementato anche la fame di nuove serie, e la necessità di agganciare un pubblico non più trasversale, ma meglio definito. È così che si sono aperti spazi ad autori che prima sarebbero stati sistematicamente tagliati fuori dalle writers’ room, per creare opere spesso sperimentali anche nella forma e nella messa in scena, e diversissime tra loro: dal surrealismo di Atlanta di Donald Glover all’ironico realismo di Insecure di Issa Rae, dalla saga familiare Queen Sugar di Ava DuVernay alla satira di Dear White People di Justin Simien, dal dramma carcerario Orange Is the New Black di Jenji Kohan al dramma urbano The Chi di Lena Waithe, fino al supereroe impermeabile ai proiettili Luke Cage di Cheo Hodari Choker (e l’elenco continua). Sulla tv generalista c’è anche una rivisitazione della black sitcom, Black-ish: una versione consapevole, però, che non evita le difficoltà, le durezze e le contraddizioni dell’esperienza nera, anzi, le utilizza come motori del racconto.
E, ancora, ci sono la riscoperta della storia, e la sua denuncia: da Underground, ambientata in una piantagione della Georgia, a Snowfall di John Singleton, sull’epidemia di crack degli anni ’80; da The Get Down di Baz Luhrmann, che rilegge la nascita della sottocultura hip hop come un’epica musical, a When They See Us, ancora di Ava DuVernay, sull’incredibile vicenda di cinque ragazzini incarcerati per un crimine mai commesso. Dalle serie di John Ridley Guerrilla, sul Black Panther Movement, e American Crime, ai lavori co-prodotti dall’inarrestabile Ryan Murphy: Pose, sulla culture ball della New York anni’ 80, con un cast di donne nere transgender; e American Crime Story: Il caso O.J. Simpson, che sotto l’accattivante superficie della ricostruzione true crime ha illuminato impietosamente i nervi scopertissimi della questione razziale. E poi, lo scorso autunno, la rivoluzionaria Watchmen: la trasposizione-sequel-remix firmata da Damon Lindelof ha affiancato alla decostruzione della figura del supereroe del fumetto originale quella della storia d’America, portando alla luce della coscienza collettiva fatti “dimenticati” (il massacro di Tulsa del 1921) e immaginando la potentissima origin story di un vigilante nero.
Proprio in American Crime Story, a un certo punto, c’è una scena che rappresenta la divisione tra bianchi e neri attraverso la tv: tra i membri della giuria rinchiusi in un hotel per deliberare, i primi pretendono di guardare Seinfeld, i secondi Martin. Non sembra esserci possibilità di conciliazione: i primi la seconda serie non la conoscono nemmeno, e viceversa. Ognuno è imprigionato in quella che la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie chiama “la storia unica”: il problema non è tanto che uno stereotipo possa essere falso (può perfino fotografare una realtà diffusa, come per il papà di Willy), ma che quello stereotipo diventi l’unica versione possibile. Aprire spazi, accogliere nuove voci, moltiplicare i punti di vista, mettere in scena nuove storie, empatizzare con altri mondi è la strada da seguire. E la tv un ottimo punto da cui cominciare.