Provo a riassumere il sentimento generale: toglieteci tutto, ma non il duca di Hastings. E butto lì la mia unpopolar opinion: il problema dei nuovi episodi non è la mancanza di Regé-Jean Page (anzi, il nuovo lead dal punto di vista recitativo è decisamente meglio, non che ci volesse tanto: ma ci torneremo). Semmai è che, per dirla con Mahmood e Blanco, mancano i “brividi”. Che Shonda e il suo pupillo, il creatore della serie Chris Van Dusen, si siano dimenticati di cosa abbia reso Bridgerton… BRIDGERTON? Semplicemente, il sesso non è la materia di cui è fatta la seconda stagione, con l’aggravante che il romanzo della saga rosa by Julia Quinn da cui è tratta, Il visconte che mi amava, è uno dei più apprezzati e non latita affatto di situazioni piccanti. Ecco, invece – per chi sa di cosa parlo – l’adattamento seriale cambia decisamente strada dopo la famigerata scena della puntura d’ape per diventare qualcosa di completamente diverso. E cioè, meno “croccante”.
Insomma, Bridgerton 1, ovvero la stagione del sopracciglio (di Page) e degli amplessi su ogni superficie Regency disponibile, VS Bridgerton 2, tutta sospiri e slow burning, così slow che però a un certo punto immaginiamo l’intimacy coordinator chiedersi: “Cosa ci faccio io sul set?”. Risposta: NIENTE, o quasi. Avrete già bingiato tutti i nuovi episodi, quindi possiamo andare sereni: Bridgerton ha messo da parte il suo lato pornosoft. E ha cercato di tradurlo in una sensualità meno esplicita e più suggerita.
Forse a Shondaland si sono resi conto che una programmazione ideale di ben otto stagioni (tanti sono i libri, ciascuno dedicato alla love story di uno dei fratelli), di cui due disponibili e altre due già confermate, non poteva reggersi solo su “quello”. E hanno deciso di aumentare il fattore emozionale, curare di più la costruzione dei personaggi, raccontarne meglio il passato e le motivazioni ben oltre il “mia madre non mi ha mai spiegato cos’è un orgasmo” di Daphne, per arrivare a pennellare quella che vuole essere sempre di più una saga familiare. Missione compiuta, ma c’era bisogno di lavorare così (per dirla con eleganza) “in sottrazione”?
Arrivederci “educazione sessuale di ragazza innocente da parte di marcantonio scafatissimo”, qui il tropo cambia drasticamente: potete scegliere tra “amore proibito”, “il-triangolo-no”, “da nemici ad amanti”, “dovere o desiderio” con lampi di simil-bisbetica domata. E nessuno è una novità per questo tipo di romance. Ma bisogna arrivare alla sesta puntata perché ci sia un bacio – UN BACIO! – tra i protagonisti della love story centrale, quando Daphne e Simon l’avevano già fatto su tutte le scale delle sontuose dimore londinesi.
Eppure – dicevamo – il nuovo protagonista Jonathan Bailey batte Page (avanti con gli insulti, ma tant’è) nel caratterizzare il suo Anthony, il maggiore dei Brigderton nonché visconte. Ostinato e severo, deciso, dopo anni da scapolo impenitente (prima se la faceva con la cantate d’opera Siena), a prendere moglie per il bene della famiglia. Ma – attenzione – l’amore non c’entra, vuole sono una compagna adeguata al suo rango e al suo titolo. Impossibile però soddisfare i suoi standard, almeno fino a quando non arrivano a Londra dall’India le Sharma in cerca di marito per la più giovane, Edwina (Charithra Chandran), che viene eletta diamante della stagione dalla regina e diventa subito papabile per il nostro. Le scintille però volano, e fin da subito, tra Anthony e la sorella di Edwina, Kate (Simone Ashley), considerata “vecchia” a 26 anni per essere ancora in età da marito e concentrata sulla felicità della più piccola di casa, unica vera speranza per risollevare la loro situazione economica. L’elettricità tra il visconte e Kate cresce costantemente, insieme alla nostra frustrazione nel non vederli insieme.
Anche Ashley – un po’ snob, molto competitiva, ma pure tenera nonostante gli sforzi di fare la dura – va ben oltre gli occhioni perennemente spalancati di Phoebe Dynevor nel “Paese delle meraviglie”, con la solita punta di femminismo un po’ esibito che piace tanto a Rhimes e l’immancabile e sottolineatissima diversity tra gli attori (nel libro il cognome delle sorelle è Sheffield, per dire). Ormai però ci siamo abituati, anche grazie alla performance delle due vere MVP della stagione: Queen Charlotte (che si è conquistata uno spin-off, courtesy of la leggenda del West End Golda Rosheuvel) e Lady Danbury (Adjoa Andoh), due ragioni più che sufficienti per comprendere il casting color-blind. Il resto è ancora more of the same: gossip di Lady Whitstledown (sempre più in crisi di coscienza), abiti dai colori zuccherosi e brani di Miley Cyrus eseguiti da quartetti d’archi. Tutto very Shonda, as usual.
Il successo di Bridgerton però era nato dal rappresentare una variazione hot sul tema dei romanzi d’epoca, dallo sbirciare dietro le porte chiuse della società Regency come nessuno aveva osato prima: se perde la sua ragion d’essere pruriginosa, che guilty pleasure è? In cosa Anthony e Kate sono diversi da Mister Darcy e Lizzie Bennet o da Miss Woodhouse e George Knightley? Se bastano intrighi, romanticismo, scandali e pettegolezzi, allora, ça va sans dire, rileggersi Jane Austen e riguardarsi gli adattamenti di Ragione e sentimento, Orgoglio e pregiudizio o Emma. Aka “i classici”.
Anche se la storyline del secondogenito Benedict Bridgerton, la sua anima da artista tormentato e la chimica naturale con chiunque lo affianchi sullo schermo sembrano promettere bene per una terza stagione. D’altra parte, Luke Thompson è sempre stato il mio favourite dall’inizio, altro che il duca o Anthony. Shonda, vedi che devi fare.