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‘Bridgerton’: Jane Austen incontra il pornosoft, e per chiudere il 2020 va bene così

Al primo episodio del debutto di Shonda Rhimes per Netflix ho mollato, ma poi mi sono ritrovata a bingiare la serie. Di seguito le motivazioni con cui mi sono autogiustificata, perché di autogiustificazione si tratta

Foto: Netflix

Ho iniziato a vedere Bridgerton e ho mollato dopo il primo episodio, probabilmente a causa: A) di quel décor caramelloso (potreste ritrovarvi a odiare il giallo, come alcune delle protagoniste), wannabe sontuoso e über fake per l’epoca Regency (Emma. perdonali, perché non sanno quello che fanno: qui anziché il punto ci vorrebbero i punti di sospensione); B) dei quartetti d’archi, che appena ti rendi conto che i personaggi ballano le quadriglie su Ariana Grande o Billie Eilish invochi Sofia Coppola; C) di un progressismo ormai d’antan, che non è davvero così “pro” come vorrebbe sembrare (pure Olivia Pope digrignerebbe i denti), ci torneremo. Insomma, per il suo debutto su Netflix (si parla di un accordo che potrebbe valere fino a 300 milioni di dollari), Shonda Rhimes vuole trascinare un po’ per forza il dramma in costume nella contemporaneità. Qui in realtà Nostra Signora della Tv produce, lo showrunner è il suo protetto Chris Van Dusen che, dopo quindici anni alla corte di Shondaland – da Grey’s Anatomy a Scandal –, applica tutti i trucchetti che ha imparato e pure di più per adattare la serie di romanzi rosa by Julia Quinn.

Il risultato è che, fissata la tradizionale postilla della sospensione dell’incredulità (che con Shonda è d’obbligo), hanno ragione loro, di nuovo. Perché – ricordiamolo – Rhimes è quella che, nella diciassettesima stagione di Grey’s Anatomy, si è inventata che Meredith, dottori e dottorini di Seattle avevano a che fare col Covid, e forse se lo prendevano pure. Chapeau, fine, sipario. E se alle storielle e storiacce dei medici in corsia la stessa natura di ABC metteva un confine, il laissez-faire della piattaforma di streaming corrisponde a un liberissimi tutti, sotto ogni punto di vista.



Quindi niente, alla fine ho ricominciato a guardare Bridgerton, e questa volta ci sono arrivata in fondo. Di seguito le motivazioni con cui mi sono autogiustificata, perché di autogiustificazione si tratta: A) dopo un annus horribilis, chi non ha voglia di un guilty pleasure per queste festività solitarie e anomale, di un divertissement ariosetto, che in fondo sa perfettamente di essere tale?; B) non vi siete mai chiesti come la chimica tra Mister Darcy e Lizzie Bennet o tra Miss Woodhouse e George Knightley si sia tradotta dietro le porte chiuse della società perbene? Ecco, il vero punto di forza della serie è che riconosce esplicitamente quello che tanti romanzi d’epoca schivano, e cioè che questi personaggi non vogliono solo sposarsi: vogliono fare sesso. Da qui, più che il contorno, la raison d’être sfacciatamente pruriginosa; C) il mystery, aka chi è Lady Whistledown, la giornalista di costume che con il suo bollettino su chi convola a nozze con chi, chi vorrebbe farsi chi, chi è incinta di chi, sconvolge la stagione dei matrimoni nella Londra del 1813. Il problema semmai è che la rivelazione si vede arrivare a chilometri di distanza (ssssshhhh). Ma è nell’ultima puntata, of course, la serie ormai l’avete già bingiata tutta, un altro punto per Shonda.

Golda Rosheuvel. Foto: Netflix


Lady Whistledown, dicevamo. O meglio, una Gossip Grandma d’epoca, doppiata dalla leggendaria Julie Andrews, che al posto di blog e telefonini si serve di un foglio scandalistico per manovrare i destini di queste ragazze vergini con il sogno pubblico di trovare il marito perfetto, e quello privato di avere un orgasmo, almeno dal momento in cui scoprono cos’è. La Serena Van Der Woodsen della situazione è Daphne Bridgerton (Phoebe Dynevor, problema: i volti non sono quasi mai memorabili, non c’è un’Anya Taylor-Joy, per intenderci), figlia maggiore di una famiglia ricca e potente, che fa il suo debutto nel competitivo mercato del corteggiamento: su di lei sono puntati gli occhi di tutti, mentre l’alta società teme che i suoi segreti più oscuri vengano svelati. La nostra si imbatte (letteralmente) nello scapolo più ambito di Londra, Simon Basset, alias il Duca di Hastings (Regé-Jean Page, con il pregio di saper alzare il sopracciglio come nessuno, e forse un po’ solo quello). C’è attrazione, ma lui non si vuole sposare (per la motivazione, vedi certi cliché della psicologia pop) e lei ha bisogno di risollevare le sue sorti di lady da impalmare. Ah, Hastings è un pezzo di marcantonio di colore, come tanti altri nobili nello show. Sì, il cast è diversity approved, che va benissimo eh, ma è una questione troppo importante per motivarla di sfuggita con il fatto che Giorgio IV, sposando la regina Charlotte (il mito del West End Golda Rosheuvel), abbia inaugurato un mondo inclusivo e tollerante. E senza mai rispondere a domandone del tipo: è bastata una relazione interrazziale a risolvere il problema del razzismo? Poi c’è il tema dello pseudo-femminismo filosofeggiato qui da una delle sorelle di Daphne, che a Greta Gerwig e alle sue Piccole donne verrebbero un po’ i brividi.

In ogni caso, tra intrighi, romanticismo, scandali e pettegolezzi, e mentre tutti si scontrano con regole e dettami della società, arriviamo a oltre metà serie, in cui l’educazione sessuale di un personaggio prende il sopravvento sulla storia: è Jane Austen che incontra il pornosoft, ma sempre – bisogna dirlo – con il passo leggero e divertito di un valzer. Perché Shonda riesce pure a uscire dal vibe da soap opera quasi innocentemente e a dare vita a un aggiornamento del classico racconto di corteggiamento Regency. “You know you love me, Xoxo GG”. Sì, Shonda, lo sappiamo, e ci sentiamo pure già abbastanza in colpa, ma va bene così. Almeno per quest’anno.

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