«Il carattere di una persona si giudica in base alle decisioni che prende sotto pressione. E Walt ha fallito il test», cit. Bryan Cranston in un’intervista rilasciata a Rolling Stone per il finale di Breaking Bad nel 2013. Parlava di Walter White, cristallo purissimo (pardon) di scrittura e interpretazione nella storia della serialità: il prof. di chimica del liceo di Albuquerque che, dopo la diagnosi di cancro terminale ai polmoni, si mette a cucinare meth, sperando così di potersi pagare le cure mediche e magari lasciare un gruzzoletto alla famiglia una volta che se ne andrà. Sostituisci alla riflessione iniziale il suo nuovo personaggio: non più Walt, ma Micheal Desiato. E il risultato non cambia. Il che è un bene – è chiaro che Cranston ha un filone fortunato (come se ne avesse bisogno) – e insieme un male, soprattutto per Your Honor (su Sky e NOW TV dal 24 febbraio), lo show del suo grande ritorno in quella tv che lui stesso ha contribuito a costruire con i quattro Emmy e il Golden Globe vinti grazie al ruolo creato da Vince Gilligan. Anzi, facciamo che il risultato seriale cambia, eccome. Solo Bryan Cranston è sempre lui.
Desiato è un rispettato giudice di New Orleans che fatica a circoscrivere il suo lavoro all’aula di tribunale, tanto da finire a interrogare un agente di polizia la cui testimonianza gli sembra sospetta e simili. Ma, prima ancora di questo, è un padre rimasto vedovo, che farebbe di tutto per proteggere il figlio Adam (Hunter Doohan). E nella nuova serie, adattamento del drama israeliano Kvodo e prodotta da Robert e Michelle King (la squadra dietro il legal thriller The Good Wife), c’è un momento preciso in cui il protagonista realizza di averlo fallito quel test di cui sopra, non c’è possibilità di ritorno: uno zoom di 35 secondi netti sul volto di Cranston alla fine del primo episodio. È seduto sul divano accanto al figlio, lo sguardo nel vuoto, la tonalità dell’immagine che si raffredda: ecco, basta e avanza la sua gravitas a dire tutto senza dire niente.
A spiegare che, per una serie di sfortunati eventi, Adam ha investito e ucciso l’erede di uno dei boss della città (Michael Stuhlbarg) ed è scappato in preda al terrore (i primi 16 minuti del pilot, incidente compreso, sono un cortometraggio horror a sé, costruito con una pazienza inquietante, è la sequenza no-Cranston migliore della serie). Che Michael farà ogni cosa in suo potere per tutelare il ragazzo da quella legge di cui dovrebbe essere esecutore e custode e dalla vendetta della criminalità organizzata. E che ora, come si dice, sono cazzi amarissimi, perché tentando di risolvere un problema, tipo sbarazzarsi della famigerata auto, Desiato ne ha generati a catena almeno altri tre, che sono ben peggio del primo. Fino a diventare, nel corso della storia sempre più angosciato, confuso, terrorizzato. Più che agire, Cranston reagisce, e pochi riescono a farlo come lui. E nessun altro potrebbe tirarci dentro una storia tanto dura e spietata, sì, ma che sottostà a un modello di narrazione un po’ meccanico per cui, quando i livelli (anche di analisi psicologica) non sono costantemente alti e il tocco è sempre ostinatamente serioso e mai leggero, anche al nostro qualche sfumatura viene sottratta.
Perché il volto di Your Honor è ovviamente Desiato/Cranston, un uomo comune che decide che la vita del figlio vale più della sua moralità. Ed è la benedizione (o maledizione, scegliete voi) di Cranston quella di interpretare medioman senza niente da perdere o quasi, padri disposti a diventare criminali per il bene della propria famiglia (o almeno è quello che si e ci dicono, Walt in primis), dei quali vediamo diminuire la coscienza e crescere implacabilmente il lato oscuro e, che sia per trasformarsi nel più grande spacciatore del New Mexico per necessità (?) o mettere in pericolo persone innocenti per tenere al sicuro i propri cari, poco importa (Your Honor prova anche a raccontare New Orleans con una prospettiva più ampia, tra confilitti di razza e classe, ma non sempre funziona).
Padri, dicevamo. Dopo una ventina d’anni di ruoli secondari in soap e film, Cranston è diventato celebre nel 2000 con il ruolo di un altro “patriarca” sui generis, Hal Wilkerson, il padre di Malcolm. Nella sitcom, Hal è un sensibilone al limite del piagnone, che non ha nessuna autorità sui figli e che è sottomesso alla moglie Lois, di cui è molto innamorato. Segue Breaking Bad, appunto, e il grip dell’archetipo paterno (papà Walt lo è in un certo senso anche per il suo ex studente e socio in affari Jesse Pinkman) diventa sempre più dark, ma senza mai perdere quella punta di ironia che fa parte dell’estro di Bryan, e che Gilligan aveva compreso benissimo. Poi sul curriculum c’è un altro padre, che però era troppo era impegnato a fare la storia del cinema, e criminale venne considerato perché iscritto al Partito Comunista nell’America della Guerra Fredda: lo sceneggiatore Dalton Trumbo, due volte premio Oscar (per Vacanze romane e La più grande corrida, entrambi sotto pseudonimo) finito nella lista nera di Hollywood e persino in carcere. Per quella performance Cranston ha conquistato la sua prima (e per ora unica) nomination dall’Academy Award: le scene in cui scrive nella vasca da bagno, abbaiando a moglie e figli di lasciarlo in pace, sono uno spasso. E lo dico: ho capito che Bryan forse adesso preferisco vederlo così, in versione larger-than-life, e non più in un ruolo che assomiglia troppo a qualcosa che ha già fatto in una serie migliore. Meglio di chiunque altro.