Quindici anni, diciassette stagioni. Quindici anni sono il tempo che un tenero neonato impiega a diventare un adolescente rompiballe, e diciassette stagioni metterebbero a dura prova la pazienza di chiunque – la mia in primis, paragonabile a quella di un colibrì. Eppure, siamo tutti ancora qui: Grey’s Anatomy, Shonda Rhimes, la mia scarsa pazienza, io. Oggi debutta su ABC il capitolo numero diciassette del medical drama più drama che medical che ci sia; il polpettone che non sfoderiamo mai durante le cene e gli aperitivi (bei ricordi: a saperlo, forse, col senno di poi avremmo trovato il coraggio); il piacere televisivo proibito che va avanti da talmente tanto (era il 2005) che ormai manco sai più se è un piacere o una dipendenza.
Certo, in questo caso l’occasione ha fatto l’uomo (anzi, la donna: nello specifico, Shonda Rhimes) ladro: al Grey Sloan Memorial Hospital è arrivato il Covid-19, e i vari Meredith, Bailey, Owen e compagnia curante sono alle prese con l’emergenza sanitaria. Chissà se, tra le corsie dell’ospedale più blasonato d’America, verrà trovata una cura miracolosa o il vaccino che salverà il mondo. Quel che è sicuro è che si allontana ancora di più il glorioso passato in cui i medici erano parecchio zozzoni e si divertivano a copulare indistintamente tra loro, fregandosene di amicizie, gerarchie, matrimoni preesistenti. Vuoi per via della distanza di sicurezza, vuoi perché già da qualche stagione si fa sesso solo in maniera molto educata, rispettosa e corretta tra congiunti, m’immagino che l’addio al risvolto più interessante della serie sarà, ahinoi, definitivo e irreversibile. Rimarranno le patologie rarissime e apparentemente inoperabili, i pipponi educativi sui temi caldi del momento (diversity, gender, femminismo, disabilità) e la simpatia di Meredith Grey, in grado di risvegliare il lato oscuro anche dei più miti e mansueti.
Un po’ lo odio, Grey’s Anatomy: ho imparato a conoscerlo, so benissimo cosa aspettarmi e temo abbia esaurito la sua capacità di sorprendermi. Mi annoia come potrebbe annoiarmi un vecchio amante, che dovrei lasciare per concentrarmi su cose ben più importanti (tipo mio marito), ma che non riesco ad abbandonare perché, quando sono insieme a lui, compio un atto oggi considerato quasi sovversivo. Quando sono insieme a lui – nel senso, quando guardo Grey’s Anatomy – mi concedo il lusso di staccare il cervello e, per l’appunto, scelgo deliberatamente di annoiarmi. Il che non è una prerogativa esclusiva dei chirurghi del Grey Sloan, se vogliamo essere precisi: la stessa identica dinamica interessa (e ha interessato) i vari Scandal, How to Get Away with Murder, Station 19, Private Practice, The Catch. E interesserà pure Bridgerton, serie nuova di zecca basata sui bestseller di Julia Quinn, che debutterà su Netflix il prossimo 25 dicembre.
È il meccanismo perfetto e perverso che Shonda Rhimes – in alcuni casi nelle vesti di creatrice, in altri in quelli di produttrice con la sua Shondaland: un plauso al nome – riesce ogni volta a mettere in atto, e noi poveretti ci caschiamo puntualmente. Shonda se ne frega della verosimiglianza: se i suoi titoli ospedalieri conservano un minimo sindacale di aderenza alla realtà, le vicende di Olivia Pope e di Annalise Keating hanno una probabilità d’accadimento pari a quella di venire rapiti da un commando di terroristi ceceni mentre si è a passeggiare col cane e di essere deportati in un carcere sotterraneo segreto ad Aruba. Ma non è questo il punto: How to Get Away with Murder (da noi Le regole del delitto perfetto, sei stagioni totali) non sarebbe altrimenti stabile nella top 10 dei più visti su Netflix, e sempre Netflix – che ha l’occhio lunghissimo – non avrebbe firmato un accordo pluriennale con Shondaland del valore di 150 milioni di dollari; il più redditizio, dicono, nella storia dello streaming.
Il punto è che – per quanto assurde, paradossali e retoriche – le serie firmate Shondaland sono lo svuota-testa di cui diventiamo schiavi peggio dell’eroina. Iniziamo a vederle per curiosità o per caso, e se i primi tre, quattro episodi c’acchiappano (non è scontato, esiste chi vanta anticorpi assai resistenti), continueremo a guardarle sino allo sfinimento. Andiamo avanti per inerzia, e finiamo per amare quei quaranta minuti dove succede comunque qualcosina che ci porta a volere la dose successiva. Non siamo insomma davanti a Beautiful, non possiamo saltare cinque puntate e pretendere di rimanere al passo: probabilmente il segreto sta proprio lì, nella consapevolezza che, se si perde il treno un paio di volte, riprenderlo è molto, troppo difficile, e obbliga il recupero di una lunga serie di arretrati. Con conseguenze devastanti, va da sé, sulla gestione della propria routine.
Vogliamo illudere il prossimo d’essere persone risolute, che non si fanno intimidire dalle maniere forti e che sono capaci di scelte dolorose e temerarie, ma continuiamo a permettere a Shonda Rhimes di giocare con i nostri sentimenti a suon di morti inaspettate, tradimenti mal celati e cliffhanger da quattro soldi. Uscire dal tunnel però non è affatto semplice e indolore, senza contare la pandemia di mezzo: come possiamo – anzi, posso – pensare di troncare una relazione così su due piedi? Cara Shonda, che ne dici se ci prendiamo un periodo di pausa? Come dici, adesso? Oh, no, riparliamone dopo l’ultima stagione di Grey’s Anatomy e le prime puntate di Bridgerton, va bene per te?