Come fai a dire che Hollywood è brutta? È che qui si aspettava la nuova serie di Ryan Murphy manco fosse la fine del lockdown. E, episodio dopo episodio, la delusione è la stessa che ti piove addosso finita ogni conferenza di Conte: ‘sto grande piano potevate farlo mille volte meglio, cazzo.
Cazzo, sì. Con Murphy te la prendi, perché l’idea è grandiosa (e sacrosanta): immaginare un’industria del cinema più inclusiva, un sistema in cui colore della pelle, genere e preferenze sessuali non contano. E riscrivere la Storia proprio attraverso la materia stessa dei sogni: i film, che “non ci fanno vedere il mondo soltanto per com’è, ma per come potrebbe essere”, sostiene programmaticamente il personaggio di Darren Criss (già volto cult di Glee e premiatissimo assassino di Gianni Versace nella seconda stagione di American Crime Story). La dichiarazione d’intenti di Murphy non potrebbe essere più chiara. E più ingenua. Ma ci arriveremo.
Raymond Ansley è un giovane regista metà filippino che nella Hollywood del secondo dopoguerra, bianca e maschia, vuole girare una pellicola dal titolo L’angelo di Shangai (!) con la prima (vera) star di origini cinesi, Anna May Wong. Una protagonista donna e per giunta asiatica: per gli studios non esiste. Ma a Raymond/Criss viene data la possibilità di dirigere un film su (indovinate) un’altra emarginata dallo show-biz: Peg Entwistle, giovane aspirante attrice che nel 1932 si gettò dall’insegna di Hollywood dopo aver capito che il suo American Dream non si sarebbe realizzato. Ah, dimenticavo: il film è scritto da un ragazzo gay di colore, Archie (Jeremy Pope). E la fidanzata di Raymond, Camille (Laura Harrier), è una giovane afro-americana a cui finora hanno affidato solo parti da domestica alla Mami di Via col vento. Iniziate a capire? Andiamo avanti.
Nella Città degli Angeli ci sono altri due outsider che cercano di sfondare: Jack (David Corenswet), veterano belloccio bianco ed etero appena arrivato a LA con moglie a strascico, e il mascellone Roy Fitzgerald (Jake Picking), futuro Rock Hudson, bianco ma gay. Due perfetti fustacchioni per la beefcake mania degli anni ’50, di cui il controverso agente Henry Willson è stato tra i principali (fan e) promotori. Ed ecco che arriviamo ai pezzi grossi del cast. Già perché per realizzare il suo fantasy progressista Murphy ha chiamato la serie A. Willson è Jim Parsons, lo Sheldon Cooper di Big Bang Theory, che ha sposato il progetto anima e corpo, tanto da farsi invecchiare e inviscidire in una versione impomatata e, a dirla tutta, super creepy. Poi c’è la divina Patti LuPone, leggenda di Broadway per cui lo showrunner ha scritto appositamente la parte di una ex star dei film muti che era “troppo ebrea” per farcela dopo l’avvento del sonoro, e che ha finito per diventare la moglie del boss degli studios. E un meraviglioso Dylan McDermott, nei panni di un ex aspirante attore che si è reinventato benzinaio-magnaccia per necessità.
Sono in qualche modo tutti outcast, emarginati: sono i diversi, i misfit che Murphy non può fare a meno di raccontare. Dai ragazzi della serie-musicarello Glee, magnifici loser canterini del liceo, ai protagonisti dei drag ball di Pose nella prima, lussuosissima era Trump anni ’80, dove The Donald faceva “solo” l’imprenditore. Ma lì si andava ben oltre la superficie, c’era un approfondimento psicologico in quegli adolescenti sperduti e accomunati da una passione, in quei guerrieri da passerella appariscenti ed audaci, ma pure isolati e terrorizzati dall’epidemia di HIV, che questo Saranno Famosi della diversity si sogna. Purtroppo.
Eppure Murphy aveva già provato a fare una capatina nella Hollywood che avrebbe voluto con Feud, starring Jessica Lange e Susan Sarandon. Ma si era arreso all’evidenza che le cose tra Joan Crawford e Bette Davis non potessero andare diversamente, in un mondo corrotto in cui tutto le incoraggiava a odiarsi e a rivaleggiare. E ci aveva profusamente spiegato perché: sono mancati il coraggio, l’intelligenza. Ma c’era umanità a non finire. In Hollywood Murphy grida all’intelligenza e al coraggio del suo ben assortito manipolo di aspiranti attori, registi e sceneggiatori che vogliono ribaltare le regole del gioco. Ma si dimentica che i suoi eroi prima di essere paladini, sono umani, fragili, anche impauriti. Li ritrae spavaldi, sprezzanti di qualsiasi pericolo, crede che il suo messaggio sia così alto da non dover perdere tempo a raccontare i personaggi oltre il “sono di colore/donna/gay e voglio cambiare le cose”. Murphy è così preso a costruire la sua Hollywood dei desideri da pensare che sentire i protagonisti ripetere ossessivamente la missione senza andare oltre sia abbastanza. No, Ryan, non lo è. E al terzo proclama, anche basta, abbiamo capito.
Di fondo c’è lo stesso revisionismo favolistico di Tarantino in Bastardi senza gloria e, soprattutto, in C’era una volta a… Hollywood: nel riscrivere il suo personale manuale di storia Quentin però faceva una riflessione profondissima sul cambiamento e sulla celebrità, con il divo sul viale del tramonto (DiCaprio), lo stunt man che divo non lo sarebbe mai stato (Pitt) e l’attrice che diva la stava per diventare (Robbie), Manson permettendo. Qui invece, in un altro momento chiave dell’industria, un gruppo di emarginati si ritrova in cima all’Olimpo quasi da un momento all’altro. Come? Di base togliendo di mezzo l’uomo bianco e potente che muoveva i fili di tutto.
Con Murphy te la prendi una volta di più perché ti diverti pure: ci sono degli eccessi splendidi, delle sequenze larger-than-life (vedi il festino a casa di George Cukor, con una versione terribile di Vivien Leigh), una sincerità di fondo (e di cuore) nell’immaginare un sistema “altro” così totale da diventare naïf e dei personaggi a cui ti affezioni davvero (vedi il direttore di produzione interpretato da Joe Mantello e la mentore degli attori Holland Taylor). Ma poi le performance di alcuni degli interpreti più giovani e centrali nella storia sono evanescenti (Boris la metterebbe giù diversamente) e la coerenza perde dei colpi: tutti considerano controverso ingaggiare un’attrice di colore come protagonista di un film, ma nessuno si preoccupa per la relazione interrazziale tra Raymond e Camille. E poi, se racconti l’età dell’oro, il valore di produzione dev’essere adeguato. E invece, per dirne una, il bar/ristorante degli studios più importanti del periodo sembra la mensa di una fabbrica di provincia.
E qui torniamo alla dichiarazione d’intenti iniziale. Hollywood sogna in grande, e a chi non piace sognare? Murphy ha intuizioni magnifiche e ambiziose, ma sempre più spesso, preso proprio dalla grandiosità delle sue idee e dall’urgenza di urlarle forti e chiare, perde per strada i dettagli, complici anche la quantità di titoli che sforna (c’era davvero bisogno di The Politician?) e la mancanza di qualche paletto creativo da parte di chi produce. Ma in un’ode contro sessismo, razzismo e omofobia i dettagli e le sfumature sono importanti tanto quanto il messaggio. Che meno gridato e meno testardamente revisionista, poteva essere più efficace. Come fai a dire che Hollywood è brutta? Non lo dici, ma come fai a negare che Hollywood avrebbe potuto essere molto più di quello che è?