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‘Chiami il mio agente!’, quanto ci manca il cinema (soprattutto in Italia)

È arrivata su Netflix la quarta (e ultima?) stagione della serie francese cult. Una cosa che , detto con tutto l’amore per ‘Boris’ , da noi non si potrebbe fare mai

Foto: Christophe Brachet/France 2

Lo scorso Natale, per ovvi motivi, non sono andato come sempre faccio a Parigi, il che vi farà dire echissenefrega, il che mi ha reso ancor più dolorosa la visione di Dix pour cent stagione quarta (e ultima, si direbbe lacrimando sul finale), arrivata sulla tv francese a novembre 2020, da noi su Netflix da qualche giorno, titolo (sciocchino) Chiami il mio agente! È doloroso vedere quei pranzi nella nuova brasserie da provare, e i pastis al banco, e le passeggiate freddissime nei parchi spogli con le statue inverdite. È doloroso, ancor di più, vedere tutto quel cinema anch’esso, per ovvi motivi, rimandato.

Per chi non lo sapesse – la mia bolla lo sa, la mia bolla non parla d’altro: la nuova di Dix pour cent era più attesa dei Mondiali di calcio – questa è la storia di un gruppo d’agenti cinematografici e dei capricci e imprevisti degli attori che rappresentano, molti di loro star di caratura pure internazionale. A chi mai fregherebbe una storia del genere?, si chiedono loro stessi nell’ultima stagione, in cui ormai vale (giustamente) l’autocitazione. In realtà frega moltissimo a moltissimi, un po’ per il giochino del buco della serratura, dei famosi spiati, dei microcosmi che sembrano pieni di privilegio e invece rivelano tanta (deliziosa) miseria; un po’ perché c’è dentro un cinema – e un’idea di cinema – del tutto novecentesco, nostalgico, irripetibile.

È doloroso, dicevo, vedere tutto quel cinema e quel Sistema Cinema – qualcuno lo chiama così – che da noi non esiste più, a patto che sia mai esistito. In Francia, lo si vede ad ogni Festival di Cannes che dio manda in terra (poi ci si è messo il Covid), è un comparto che muove soldi e politica, che protegge sé stesso e la propria identità fino allo sfinimento (non manca, qui, la battuta sull’auteur duro e puro che, piuttosto che mandare il suo film su Netflix, non lo gira), che continua a produrre cultura in quest’epoca di challenge su TikTok (sto semplificando, sto boomerizzando).

Sigourney Weaver nella quarta stagione di ‘Chiami il mio agente!’. Foto: Christophe Brachet/France 2

Non che da noi non si possa raccontare il dietro le quinte del bel (?) mondo dello showbiz, lo si è fatto tante volte. Ma mettiamola così, per rimarcare ulteriormente la differenza: l’Italia e il suo sistema audiovisivo è Boris, altro capolavoro che però definisce da sempre e per sempre la nostra cialtroneria, l’approssimazione, la caciara; la Francia è, appunto, Dix pour cent, con la grandeur stemperata nelle gag, ma grandeur rimane.

Il Sistema Cinema francese è difatti d’esportazione ancora oggi, in questa serie molto local son passati negli anni (nel ruolo di – autoironicissimi – sé stessi) nomi diventati globali, Isabelle Huppert, Jean Dujardin, Isabelle Adjani, Juliette Binoche, Monica Bellucci, da sempre più loro che nostra, stupidi noi che l’abbiamo lasciata scappare (e altro segno del nostro scarso fiuto internazionale). In questa stagione ci sono Charlotte Gainsbourg con adorabile deriva slapstick (la buccia di banana!) e Sigourney Weaver, che scopriamo divina anche nel musical (il lindy hop!). Pure Sigourney sedotta dalle nuove brasserie, dai pastis, dalle passeggiate nei parchi spogli (e dalle notti d’artista al Père-Lachaise: sequenza magnifica). E forse è per questo se – oltre a non avere uno star system tale da giustificare un Chiami il mio agente! nostrano – nessuna star mondiale ha mai fatto Boris: i cestini a Cinecittà non hanno evidentemente lo stesso appeal.

L’altra cosa bellissima e dolorosissima è vedere una serie così popolare che si prende il gusto e la briga d’essere ancora così colta, ma come si era normalmente, mediamente colti una volta (sto ri-semplificando, sto ri-boomerizzando). Si sentono riferimenti a Danielle Darrieux e Lino Ventura, ci s’imbatte nella tomba di Anna Karina, il cagnolino si chiama Jean Gabin, e il cinema – quel cinema – manca ancora di più.

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