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‘Citadel: Diana’, o come ti creo un nuovo universo action (persino in Italia)

Vogliamo sempre fa’ gli americani, ma ora , complice il fatto che la serie con Matilda De Angelis è uno spin-off del capostipite USA by The Russo Brothers , sembriamo farlo anche meglio. Abbiamo parlato del processo creativo con l’head writer Alessandro Fabbri

Foto: Marco Ghidelli/Amazon Studios

Vogliamo sempre fa’ gli americani, ma poi, quando l’occasione si presenta sul serio, che facciamo? O ci blocchiamo, eternamente reverenti di fronte a modelli che ci sembrano inarrivabili; oppure la buttiamo in caciara, perché siamo e sempre saremo Alberto Sordi che cede allo spaghetto. Con Citadel: Diana, appena arrivata su Prime Video, l’occasione era golosa e rischiosa: partire da un universo (quello di Citadel, la matrice pensata dai Russo Brothers e franata, almeno nella prima stagione, in un flop di critica) e crearne uno nuovo (Citadel: Diana, appunto, con Matilda De Angelis come nuova agente segreta, e nuovi complotti – e se nel cast c’è anche Maurizio Lombardi, immaginerete già che, con quella faccia lì, di quei complotti farà puntualmente parte).

Ecco, guardando questo spin-off italiano, si capiscono subito due cose, che sfatano quel paradigma iniziale: qui non la si butta in caciara per niente; e insieme, però, non c’è neanche quella reverenza nei confronti degli ammerigani per cui ci si blocca, ci si impantana, e la frittata non riesce. «Personalmente mi sono stancato di sentir dire che in Italia “non si può fare”, una formula che si può applicare a mille campi diversi», mi dice Alessandro Fabbri (tra i suoi credits televisivi precedenti: In Treatment, 1992 e seguiti, Il processo), che è l’head writer e dunque l’artefice principale di questo nuovo universo (le sceneggiature sono poi state scritte con Ilaria Bernardini, Gianluca Bernardini, Laura Colella e Giordana Mari). «La mia idea è sempre stata: forse si può fare, forse no, ma comunque proviamoci. È spaventoso ed eccitante, perché vuol dire inoltrarsi in territori in cui abbiamo pochi riferimenti, in un immaginario a cui non possiamo appoggiarci: non abbiamo, nella nostra tradizione, gli stilemi dello spy action. Parti da zero, ed è un’arma a doppio taglio. Ma non devi mai pensare da dove vieni».

Citadel: Diana è un mondo con dei punti fermi vecchi (lo scontro tra le due agenzie di “spioni” Citadel e Manticore, che si fronteggiano in uno scenario di doppi giochi geopolitici) ma che, in qualche modo, viene riscritto. «È un original, alla base non ci sono romanzi o altre IP (proprietà intellettuali, nda). Segue la grande ambizione di tutta Citadel, che è un progetto complesso, un inedito mondiale: una serie già pensata all’origine con tante versioni locali fondate sulla stessa mitologia. La sfida era creare un mondo per la nostra storia, per la nostra Italia. Era un campo libero per la fantasia e la creatività, ma da costruire gestendo e rispettando un genere pur adattandolo alla nostra sensibilità. Loro la libertà ce l’hanno concessa, noi abbiamo voluto goderci questo margine di manovra».

Ma come si inventa un mondo nuovo, quali sono i pilastri che, in questo caso, sono stati piantati? «Il primo: che al centro ci fosse una protagonista forte, un personaggio che creasse la storia e che non fosse creato dalla storia. Il secondo: la creazione di un’atmosfera, di un mood, che è una cosa impalpabile. Ci sono tanti dettagli che definiscono la personalità di una serie e i suoi significati non sempre espliciti. Quando abbiamo iniziato a lavorare su Citadel: Diana il sentimento che ci ha guidato, che ha dominato l’ispirazione, ce l’ha poi confermato quello che è successo nel mondo: un senso di incertezza, di paura, il fatto che le nostre certezze come Paese, come Europa, fossero sempre più scricchiolanti. Quella è stata la linea guida, e da lì sono venute fuori le immagini come quella del Duomo di Milano distrutto. Il terzo pilastro: non tirarsi mai indietro rispetto all’action, che è una cosa che corrisponde anche al mio gusto di spettatore. Volevo che ci fosse l’adrenalina pura che si avverte quando c’è in gioco la vita fisica, non solo quella emotiva. Citadel è stata per me la grande chance di scrivere il tipo di serie che amo fin da quando ero adolescente».

Il Duomo senza più bela Madunina, diceva Fabbri, e oggi sembra inevitabile che, quando si vuole inventare una serie action in Italia, si debba ambientare per forza a Milano. «Ci torno spesso nelle cose che scrivo, forse perché è una città coi nervi accesi. Ed è la città che in Italia riflette per prima i cambiamenti globali, le altre tendono a chiudersi e il cambiamento allora diventa più lento. Milano è energia e durezza insieme, però poi da lì siamo voluti andare nell’aridità e nel sole della Sicilia, perché l’Italia doveva farsi vedere, non con le solite cartoline, ma senza nemmeno cercare di camuffare lo sfondo di quella che resta una serie assolutamente italiana».

Matilda De Angelis è Diana Cavalieri. Foto: Marco Ghidelli/Amazon Studios

Matilda De Angelis, cioè Diana, cioè questa agente che non vi dirò da che parte sta se no che gusto c’è, è esattamente la protagonista che crea la storia e non si fa creare da essa. «Era la migliore protagonista possibile, ha una specie di moodboard personale che è giustissimo per il look di questa serie. E poi è, semplicemente, molto molto brava. Serie come questa si poggiano su una scrittura dove tutti i personaggi sono motivati a nascondere quello che pensano: fa parte della natura del genere. E perché la storia non risulti piatta, tanto deve passare dai volti degli attori, che devono mettere quello che pensano tra una battuta e l’altra senza essere troppo criptici – questa in fondo è una serie che vuole essere mainstream – ma mantenendo gli enigmi alla base della narrazione. Matilda ha fatto un lavoro egregio, qualunque cosa faccia le si muovono gli occhi, senti che c’è sempre qualcosa sotto».

Citadel: Diana, è evidente, wasn’t built in a day: per creare un mondo nuovo ci vuole tempo. «Ti dico solo che il primo pitch è stato nel 2019 e, parlando di paure e di insicurezze, era davvero un altro mondo. Poi è successo quello che sappiamo, e quando l’ho rivista adesso mi è sembrato tutto molto meno distopico di come l’avevamo immaginato. Il 2030 in cui è ambientata la serie ci sembrava lontanissimo, e invece…».

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