Per la seconda volta, oltre alle bottiglie di prosecco puntate al soffitto in attesa di detonare, il devastante concerto/minestrone sulle reti televisive generaliste, le tavolate con i menu da 15mila calorie e l’arsenale di petardi/fontane/miccette con cui scatenare la guerra civile al rintocco della mezzanotte, il nostro ultimo giorno dell’anno ha potuto beneficiare dell’arrivo su Netflix della quarta stagione di Cobra Kai. Esattamente un anno fa avevo pomposamente e avventatamente definito la serie come una delle più importanti del 2021, articolando le motivazioni in 5 punti (che trovate qui). Oggi, fresco di visione della Season 4, credo sia ragionevole affermare che gli ingredienti alla base del successo di questa serie creata da Jon Hurwitz, Hayden Schlossberg e Josh Heald, un trio di nerd ossessionati dalla saga di The Karate Kid (uno dei franchise più saldamente ancorati nello zeitgeist degli anni ’80), siano presenti nelle nuove puntate e, se possibile, ulteriormente mescolati per dare ancora più sapore ad una ricetta unica. Non era affatto facile dopo tre stagioni. Li riassumo qui:
– un miracoloso equilibrio tra l’effetto nostalgia e la cheesiness usata consapevolmente che desacralizza gli aspetti più ridicoli di quel decennio evitando il patetismo tipico di tanti altri reboot/spinoff autocelebrativi;
– dinamiche plausibili fra personaggi scritti molto bene che hanno un arco narrativo non banale e verosimile;
– l’attenzione verso temi sempre attuali come il bullismo, l’inclusività, il rapporto genitori-figli;
– una scrittura mai banale che alterna sapientemente citazionismo nerd, battute e momenti ricchi di pathos;
– l’uso del cast originale in modo totalmente funzionale alle linee narrative della serie e (cosa non banale) con backstory credibili.
*** Attenzione, piccoli spoiler più avanti ***
Avevamo lasciato Johnny Lawrence, il pupillo decaduto del Cobra Kai che adesso sembra un surfista senza fissa dimora che puzza di piscio, e l’antipatico borghese new age Daniel LaRusso, allievo prediletto del compianto Mister Miyagi e titolare di un concessionario automobilistico di successo, a unire le forze in un’improbabile alleanza per contrastare quella faccia di cuoio di John Kreese, un reduce dal Vietnam desideroso di vendicarsi delle umiliazioni subite da LaRusso e dal suo mentore giapponese nei film Karate Kid 1 e 3. Per assicurarsi che nulla vada storto e il suo dojo (che dà il titolo alla serie) regni incontrastato su tutta la San Fernando Valley (dove inspiegabilmente i tornei di karate under 18 attirano più pubblico che il Super Bowl e le Olimpiadi messi insieme), Kreese si rivolge nuovamente al suo vecchio commilitone, il luciferino multimiliardario Terry Silver (interpretato da Thomas Ian Griffith), principale novità di questa quarta stagione ed ennesimo attore del cast originale (dopo Elizabeth Shue, Ron Thomas, Tamlyn Tomita e Yuji Okumoto) a rispolverare il proprio personaggio.
Nel 1989 Griffith ha 28 anni, uno meno di Ralph Macchio (il solo fatto che lo script lo spacci per un veterano del Vietnam la dice lunga sulla qualità del terzo capitolo del franchise) e quello di Karate Kid III è il suo debutto sul grande schermo. Dire che l’interpretazione di Griffith sia sopra le righe è un understatement: il suo Terry Silver è un villain talmente schizzato, cartoonesco ed esagitato che in confronto il Jim Carrey di The Mask sembra Charles Bronson nel Giustiziere della notte.
Esagitato psicopatico che ha fatto i soldi con lo smaltimento dei rifiuti tossici in modo losco, Silver manipola il giovane LaRusso affinché si sottoponga a dolorosi allenamenti in cui deve colpire fino a sanguinare un manichino di legno e metallo (…) e si allontani dall’influenza positiva del suo maestro Miyagi. In realtà è tutto un diabolico piano per convincerlo a partecipare al torneo di karate All Valley e di farlo perdere sonoramente contro un nuovo avversario/bullo del Cobra Kai, vendicando l’onore di Kreese. Inutile dire che fallirà. Tutti sono concordi nell’affermare che Karate Kid III sia il canto del cigno della serie, compreso il regista John G. Avildsen, che nel 2015 lo definì «una pessima imitazione del primo episodio» e «un film orribile». Eppure, nonostante queste premesse, l’arrivo di Silver in Cobra Kai è la principale e più eccitante novità di questa nuova stagione.
Nel primo episodio, quando Kreese irrompe nella sua villa di Malibu per proporgli di aiutarlo a sconfiggere LaRusso e Lawrence, Silver (che ora ha l’aspetto di un guru della Silicon Valley e sfoggia una lunga criniera argentea) declina, confessandogli quello che ogni spettatore di Karate Kid III ha pensato almeno una volta: «Negli anni ’80 ero così annebbiato dalla cocaina e dalla vendetta da passare mesi a terrorizzare un adolescente per un torneo di karate! Sembra assurdo, a parlarne ora! Dopo quel torneo ho toccato il fondo, ma mi sono rialzato…». È anche questa la grande forza di Cobra Kai: la capacità di trattare il materiale originale con la giusta distanza critica adattandolo alla sensibilità di oggi, senza dimenticare l’ironia. Silver oggi ha quasi sessant’anni ed è un riccone che si gode i soldi suonando musica classica e mangiando stuzzichini di tofu mentre beve un calice di Montrachet, lontano anni luce dalla follia sadica di Karate Kid III, ma la visita di Kreese risveglia in lui pulsioni troppo a lungo sopite: nel corso degli episodi la sua trasformazione in una versione leggermente più composta del folle manipolatore del 1989 sarà inevitabile (compreso il codino degno del Fiorello dell’epoca Karaoke) e porterà a un inaspettato colpo di scena finale.
Nel frattempo la rivalità tardo-adolescenziale tra Lawrence e LaRusso, indubbiamente uno dei motori narrativi principali delle passate stagioni, non tarda a manifestarsi anche in questa: la condivisione di un dojo e di un gruppo di allievi presuppone una visione condivisa sul metodo d’insegnamento e qui i due non potrebbero essere più distanti. Lawrence, con le sue consunte magliette dei Van Halen e dei Sabbath, sembra un barman avvinazzato del Coyote Ugly e teorizza uno stile offensivo che predilige l’attacco: colpire per primi, colpire duro, senza pietà. LaRusso, con le sue tutine Nike e l’hachimaki stretto in fronte, che lo fa assomigliare a un cuoco in un sushi all you can eat di Lorenteggio, invece è fedele ai precetti del suo maestro di Okinawa: tecniche difensive, kata, equilibrio e respirazione. Incapaci di vedere che la via corretta è quella che prevede un misto di attacco e difesa – come fanno saggiamente notare loro i ragazzi – e più preoccupati che l’altro possa rivelarsi una maestro più rispettato e influente, i due arrivano presto ai ferri corti e a una scissione, trascinando con loro i rispettivi allievi e ipotecando una possibile sconfitta nei confronti del Cobra Kai, che al contrario sembra crescere con un fronte agguerrito e compattissimo di giovani picchiatori ambosessi.
Questa è un’altra costante della serie che in questa stagione trova ulteriore sviluppo: gli adulti si comportano peggio dei ragazzi che intendono patrocinare. Lawrence, intrappolato da anni in una gabbia di nostalgia spazio-temporale che non supera il 1987, è apparentemente il più infantile, terrorizzato all’idea che il suo protetto Miguel si faccia sedurre dai precetti del rivale di sempre. Ma LaRusso non è da meno, e spesso la saggezza orientale diluita con cui giustifica le proprie azioni non basta a nascondere la sua invidia e il suo senso di superiorità nei confronti della schietta e istintiva libertà di Johnny. Entrambi sono più bravi con i pupilli delle rispettive scuole di karate che con i propri figli e sembrano adolescenti capricciosi arroccati sulle loro posizioni mentre i veri adolescenti (come Hawk per esempio) sembrano più propensi a rivedere il loro approccio, a chiedere scusa e a rinsaldare i rapporti.
Un altro dei punti di forza di Cobra Kai che ritroviamo in questa stagione è la coralità: oltre a new entry come Kenny, giovane vittima di bullismo, e Anthony, il figlio minore di Daniel LaRusso che avevamo intravisto nelle puntate precedenti, ampio spazio viene dato a co-protagonisti come la ribelle white trash Tory e il già citato Hawk, personaggi che beneficiano di ulteriori sfaccettature ed evoluzioni narrative. Persino Kreese mostra un risvolto umano inedito fino ad oggi nelle fasi finali del torneo, che riserva più di una sorpresa.
Su tutto aleggia il citazionismo figlio del web che, se in Stranger Things è maniera patinata, qui è invece puro divertissement: dai ragazzi che decidono di andare al drive in a vedere Senza esclusione di colpi con Jean-Claude Van Damme (un classico dei film di menare) a Miguel che cerca di convincere Johnny a riappacificarsi con Daniel usando il parallelismo tra Rocky Balboa e Apollo Creed che in Rocky III si alleano per sconfiggere Clubber Lang, passando per Devon, giovane allieva di Johnny che ammette di essere una fan di Cynthia Rothrock (campionessa di arti marziali e protagonista di svariati film di botte di serie Z negli anni ’80-’90).
Ultimo ma non meno centrale tema della serie, in grado di renderla significante per chiunque al liceo non sia stato il quarterback della squadra più forte del campionato o la figlia cheerleader di una coppia di miliardari filantropi (ma forse anche per loro), è il bullismo, a cui in questa stagione viene dato se possibile ancora più spazio che in passato. Lo psicologo e psicoterapeuta Matteo Merigo scrive in proposito: «Nell’excursus temporale iniziato nel 1984 e giunto ad oggi, il tema del bullismo è la motivazione che ha portato tutti i protagonisti dello show a confrontarsi con il karate». Definendo il fenomeno come «una forma di comportamento sociale di tipo violento e intenzionale, tanto di natura fisica che psicologica, ripetuto nel corso del tempo e attuato nei confronti di persone percepite come più deboli dal soggetto che perpetra uno o più atti in questione», il vissuto di Creese e Silver è la forma ultima del bullismo: quella della guerra dove i prigionieri vengono usati l’uno contro l’altro per puro divertimento, quello dove il bullo diventa nemico pronto a ucciderti.
Proseguendo, Daniel si scontra con i membri del Cobra Kai alla festa di Halloween del 1984 che lo perseguitano e pestano quando lo raggiungono, fino a oggi dove anche gli allievi di Miyagi Do, Cobra Kai ed Eagle Fang trovano i loro (futili) motivi per far rissa. In questa situazione compare anche il cyberbullismo, una forma del bullismo dove gli attori non sempre interagiscono direttamente tra loro, dove lo scherno può raggiungere elementi significativi ma il medium dello smartphone via internet crea tre condizioni diverse dal bullismo classico: l’assenza del tempo (l’atto del bullo si interrompe fisicamente, il video può essere riprodotto anche dopo anni di distanza), l’assenza dei confini dello spazio (il bullismo si limita a un luogo fisico, il video di cyberbullismo può esser riprodotto in continenti diversi), l’assenza del controllo (velocità di divulgazione dell’atto di cyberbullismo e difficoltà a bloccare le fonti).
Il messaggio comunque sempre presente da Karate Kid a Cobra Kai è che «la disciplina, il rispetto, la storia e la cultura riusciranno a prevalere sempre sulla violenza del bullo». Ma per carpire appieno questo messaggio in tutte le sue sfaccettature sembra proprio che dovremo aspettare un’altra stagione. E sarà un’attesa lunga.