Non è che sia facile da dire, perché guardiamo i reality di cucina. O, in altre parole, che cosa ci attragga dell’osservare allo sfinimento il ripetersi di una scena tanto domestica quanto prosaica: scontrarsi su quello che mettiamo in un piatto. Io più bravo di te, questo spaghetto era scotto. Il sugo, acido.
Qualcuno potrebbe dire: è stato MasterChef. Nei fatti, facendo della Storia spicciola avrebbe ragione: talento, duro lavoro e meritocrazia fondano – questa la promessa del programma – la chiave per ogni sogno. Compreso quello di saltare i passaggi, attraversare il “Via” e ritrovarsi catapultati nelle cucine di un ristorante professionale senza mai averle prese. Le lezioni, ma anche gli scappellotti (metaforici e non) che il mestiere si porta (ahinoi) dietro.
È glamour, è sexy, è buono. Tutti vogliono essere rockstar (mediatiche) dietro ai fornelli. Tutti, almeno in Italia, vogliono imparare quell’aneddoto, quel trucco di cottura per fare bella figura. Oppure li guardiamo per la storia dei singoli concorrenti, pronti ad affezionarci, grazie a un ottimo lavoro autoriale, come fosse un prodotto di finzione. Qualsiasi sia la motivazione del nostro approccio, puntata per puntata, è meglio metterla da parte. Dimenticarsi tutto, ricominciare da zero. Perché su Netflix è arrivata la produzione originale Culinary Class Wars. Ed è l’ennesima hit hallyu (se non conoscete il termine, cliccate) che promette di andare alla conquista dell’Ovest.
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In effetti, l’ha già fatto. Parte MasterChef, parte Top Chef, con i suoi 12 episodi da un’ora Culinary Class Wars è uscita a settembre ed è rimasta per tre settimane consecutive in vetta alla classifica degli show unscripted Global di Netflix, cioè in lingua diversa dall’inglese. La gara funziona così: 100 chef, divisi tra professionisti formatisi nel fine dining e professionisti della ristorazione “popolare” (i primi sono i 20 Cucchiai Bianchi, i secondi 80 Cucchiai Neri) si battono per portarsi a casa un premo in denaro equivalente a circa 206.000 euro. A giudicarli saranno soprattutto due teste: Paik Jong-won, ristoratore e impresario, e Anh Song-jae, chef tristellato Michelin con il ristorante Mosu di Seoul, unico in Corea del Sud ad aver ricevuto la massima onorificenza della Rossa. L’unico, o quasi, criterio utilizzato: il gusto dei piatti.
Il titolo è parlante, e non ammicca alla sola divisione tra chef “più alti” e “più bassi”. Culinary Class Wars è solo la prima produzione unscripted Netflix legata al cibo, e già i giochi sono chiari. Che sia perché è venuta dopo l’altro grande exploit coreano sulla piattaforma, ma le logiche della competizione replicano quelle di uno Squid Game: cambi squadra a bruciapelo, un certo sentore di Grande Fratello, e voglia di un riscatto violento, da sudare. Tutti cominciano allo stesso livello, tutti hanno le stesse possibilità.
Se infatti l’idea nostrana di scalata sociale si attesa su un mansueto “voglio fare meno per avere di più”, condito con un revanscismo rivolto al fato e non a chi ci sta sopra, in Corea del Sud non la vivono così. E, proprio come Squid Game aveva mostrato, non solo vale l’aspetto economico della vittoria; ma anche la rabbia delle classi sociali inferiori. Per cui, come i gladiatori nella Roma antica, spuntarla è una questione di sopravvivenza materiale, e la storia personale di ogni partecipante non viene messa davvero in scena fino alla fasi finali. Per noi, il gioco non esiste senza il suo personaggio forte. Per loro è vero esattamente il contrario, e tutte le carte possono essere ribaltate in qualsiasi momento. Gli effetti del sogno americano sulle società collettiviste orientali.
E poi, sorpresa: in Culinary Class Wars si cucina davvero, ancora. I confessionali sono ridotti al minimo, le istruzioni date in fretta. Nessun ospite speciale a rubare la scena ai concorrenti, anche perché alcuni concorrenti già ospiti speciali lo sono – come Edward Lee, nato e cresciuto a New York ma di discendenza coreana, candidato a un James Beard Award, il riconoscimento culinario nazionale più importante degli Stati Uniti. Ampio spazio è lasciato alla scelta degli ingredienti, alle preparazioni, alle fasi di giudizio, tanto che la velocità di riproduzione ottimale è 1,5 (problema comune ai reality della Corea del Sud, qui per ricordarvi che cosa scrivevamo à propos dello show che metteva in atto Squid Game in real life). Strani i tempi in cui guardavamo MasterChef davvero interessati alle preparazioni, ai piatti, ai prodotti.
Il vantaggio naturalmente sta nello scoprire a ogni episodio qualcosa di nuovo. Esattamente come chef Lee, costantemente in jet lag per alcuni spostamenti da e verso l’America per impegni di lavoro. Intanto studiamo, osserviamo per bene i concorrenti: sfilettano, saltano e friggono, e potrebbero fornirci qualche interessante conversation starter. Come questo o quel vegetale, o il burro al Gochujang, salsa fermentata preparata con peperoncino, riso glutinoso e fagioli di soia fermentati. Ma tu lo sapevi che il rombo ha questo aspetto qui, e si cucina proprio così…? Ancora pensiamo: perché lo stiamo guardando? Continuiamo.
Non manca nemmeno la componente spettacolo: lo show è girato in interno, i set sono grandi, articolati, piattaforme meccaniche e via dicendo. Bancali di tofu vengono calati dal soffitto come un deus ex machina. Dispense e intere cucine vengono assemblate, smontate e riassemblate come se nulla fosse. Non è Takeshi’s Castle, però ci assomiglia, come ci assomigliano tutti i reality (Netflix ne è pieno) prodotti in Corea del Sud. Fatevi un giro dalle parti di Siren o L’inferno dei single per crederci (e non lamentatevi se non riemergete più dal rabbit hole): ogni sfida sembra ri-giocata sulla leva dell’assurdo. Ogni eccentricità accettata, purché rimanga nella cornice dell’intrattenimento proposto dal programma.
Dalle parti di Culinary Class Wars, la prima puntata spinge forte sul pedale del “meraviglioso”: un concorrente arriva mascherato da uccello; un altro da re di stirpe coreana; a tutti i Cucchiai Neri è assegnato un nickname a metà tra il goliardico e lo spersonalizzante – vedete voi se la cosa vi inquieta o ringalluzzisce. Uno dei concorrenti è ossessionato dalla città di Partenope e si fa chiamare Napoli Matfia. Il primo piatto da lui cucinato è una composizione di pasta ripiena dove la pièce de résistence la fanno alcuni fagotti di pasta nera arricciati: i sacchetti della spazzatura che si vedono per strada nel capoluogo campano. Perché anche quando un prodotto pop è pensato per spingere la cultura di una nazione, sul cibo non si scherza. E l’Italia sbuca sempre, in questa tecnica, quel piatto, quell’ispirazione fusion. E se si vuole stupire non si cucina francese, ma tricolore.
Uno dei giudici rimugina a un certo punto: Come mai è così emozionante, e intende la competizione. Siamo all’episodio 9, ai concorrenti è stato chiesto di mettere in piedi un ristorante che conquisti il cuore e il capiente stomaco di un gruppo di creator di mukbang, la pratica coreana di mangiare fino a scoppiare, e per ore, davanti a una telecamera (cooking show di tutto il mondo, prendete nota dell’idea). Qui Culinary Class Wars compie il suo salto di passo, e con il giudice anche noi cominciamo davvero a fare il tifo per questo o quello. Ma divago.
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Per rimanere sulla domanda, ché più giusta non ce n’è: come mai è così emozionante, e puoi davvero sentire il cuore cambiare marcia, guardare cento persone che si scannano tra fuochi alti e uova da sbattere? Forse la questione non è un punto d’arrivo, ma un percorso. Almeno Culinary Class Wars ci ha fatto sentire qualcosa. Per capire meglio che cosa, aspetteremo la seconda stagione. Non sappiamo quando arriva, però l’hanno confermata il mese scorso. Nell’attesa, proveremo qualche ricetta per far colpo sugli amici a cena. E mangeremo le nostre brioche.