Il tempo ci dirà se finire in un libro di Selvaggia Lucarelli equivale a trovarsi dentro un romanzo di Truman Capote, ma sempre lì torniamo, che siano pandori o preghiere: la moneta che conta più di tutte, nel mondo dei ricchi dove le monete sono già tante e dovrebbero bastare, è sempre stata e ancora è la reputazione.
Taylor Swift, milionaria vittimista, ci ha scritto un intero album, Reputation appunto, dove canta “and he can be my jailer, Burton to this Taylor”, sempre per echeggiare i gloriosi sputtanamenti andati. Però allora si facevano pubblicamente cose impensabili per i tempi di oggi in cui si ha paura di tutto, c’erano sfanculamenti in piazza, pizzini per mezzo di sceneggiature, e almeno ad alcuni della reputazione sembrava non fregare niente. Ad altri però moltissimo, soprattutto quelli, dicevo prima, per cui era la moneta che determinava il prezzo personale e sociale – Burton e Taylor, dopotutto, venivano pagati per recitare, le baruffe erano un meraviglioso corollario aggratis.
Arriva finalmente in Italia Feud: Capote vs. The Swans (dal 15 maggio su Disney+), la serie del Teodosio Losito d’America – definizione mia di Ryan Murphy – sullo scrittore e i suoi cigni, cioè le donne della Manhattan bene anzi benissimo, quelle dei pranzi a La Côte Basque e del Black & White Ball, che a un certo punto – sintetizzo – lui decide di usare come personaggi del suo ultimo romanzo che resterà incompiuto, Preghiere esaudite. Si vedranno sputtanate lì dentro, con nomi finti ma con le loro identiche corna, le loro beghe, le loro nevrosi, le diete, i figli, persino certe storie nerissime passate con tanto di pallottole non tanto vaganti.
Lui è il jailer, se le era ingraziate perché era pronto di favella, mica come gli omaccioni grigi e pieni di soldi a cui erano abituate. E perché quando era la reputazione degli altri (delle altre) l’oggetto in questione, le signore di Park Avenue erano le prime a divertirsi un mondo, a portarlo con sé nelle gite fuori NY. È passata alla storia la volta in cui Bill Paley, marito di Babe (qui Naomi Watts) e colui che insegnò la tv a Berlusconi, o almeno così diceva lui, conobbe Capote: pensava che sul suo aereo privato sarebbe arrivato Truman inteso come ex presidente USA, mica quell’amico della moglie così flamboyant – lui non avrebbe usato questo aggettivo.
Questa seconda serie, che segue il primo Feud (il “campissimo” Bette and Joan: ora arriverà la versione nostra, cioè Anna (Magnani) and Ingrid (Bergman), ci sta lavorando Paolo Genovese), è molto meno kitsch del previsto. Forse è perché il Losito d’America s’è tenuto (in fondo è letteratura, mica Che fine ha fatto Baby Jane?, e dunque avrà avuto più reverenza, chissà), o perché l’ha data in mano a Gus Van Sant, che dirige quasi tutti gli episodi. O per via del cast che è più stracult sulla carta che nelle interpretazioni, anche lì generalmente sotto controllo (sono tutte molto brave): Watts è appunto la capobranco dei cigni Babe, poi ci sono Diane Lane (l’infida Slim Keith), Chloë Sevigny (C.Z. Guest, un po’ genere mi faccio i cazzi miei nella mia villozza sull’Appia Antica), Calista Flockhart (Lee Radziwill, sorella invidiosa di Jackie Kennedy), Molly Ringwald (la sciroccata – e difatti losangelina – Joanne Carson); l’unica che potrebbe mettere a tacere tutte le Tripoline di Giuliana De Sio (chi sa sa) è Demi Moore con la sua Ann Woodward, ereditiera con la pistola che oggi la Fagnani farebbe di tutto per avere a Belve.
O perché Tom Hollander è un Truman Capote eccezionale, e dopo Philip Seymour Hoffman non era mica facile. Un Capote umano e pure troppo, causa del suo mal ma che in quel male in fondo ci sta bene, è la sua unica dimensione possibile, la sua comfort zone direbbero oggi. Capote capito da pochi o da nessuno (un po’ da Babe, forse in realtà solo dall’amico nemico amante Jack Dunphy, interpretato dal solitamente bravissimo Joe Mantello), gay da salotto conteso dalle dame dell’alta società che non vedono il pericolo, o forse sì. Alla fine tutti, in un modo o nell’altro, decidono di scottarsi.
O forse perché Murphy/Losito è riuscito lui per primo a tenersi, dicevo, a confezionare una serie molto malinconica, anche struggente a tratti, perché ha capito che al centro di questa storia c’è il tema oggi più spinoso, scivoloso, rischioso: la reputazione, appunto. Il piccolo circolo di amiche – un Friendfeed ante litteram, dove il “feed” è proprio il dare da mangiare (storie, calunnie, pettegolezzi) a quei cigni che sono infatti animali cattivissimi – è tutto il mondo, quello di oggi anche più di quello di ieri.
E si vede che Murphy non è l’unico ad aver capito quanto suona questa moneta, considerate le serie che girano in queste settimane. Tante storie di ricchi che perdono tutto, ma più di tutto, aridaje, il credito sociale. Un uomo vero (su Netflix), adattamento del romanzone dell’esperto in materia Tom Wolfe, è il ritratto di un magnate bancarottaro (quel gigante di Jeff Daniels) che fa di tutto pur di dimostrare che ancora conta qualcosa, anche se “il mondo si sta sbarazzando degli uomini come me”, se ne rende conto benissimo, così come che (vado a memoria) “la fine non è una tragedia, il problema è quando non ti accorgi che è arrivata” (e lui non vuole ammettere a sé stesso che se n’è accorto eccome). Palm Royale (su Apple TV+) è la storia di un’arrampicatrice di provincia (splendida Kristen Wiig) nei circoli della Palm Beach anni ’60, anche lì tantissime cigne cattive (Allison Janney su tutte, ma anche Laura Dern ex ragazza ricca che si pulisce la coscienza a colpi di femminismo e tirate anti guerra in Vietnam). Nessuno ne uscirà pulito, tutti perderanno tutto.
O forse vinceranno, liberati dal peso della bella figura sempre e comunque. E una volta non c’erano neanche i social, ci restano romanzi che son più belli degli screenshot, ma il punto è sempre quello, che rabbia che Losito non c’è più, avrebbe scritto Il bello delle influencer, o qualsiasi altra fiction capace come nessun’altra di raccontare la reputazione perduta di Chiara Ferragni, e di tutti noi.