Dave Chappelle è bravissimo, il più bravo di tutti, lo so, lo sanno tutti. Dave Chappelle è tristissimo, il più triste di tutti, e questa cosa mi sorprende tutte le volte, pure questa – lo speciale The Closer – che è l’ultima (almeno di quelle per e su Netflix).
Ma non tristissimo nel senso che lui è triste: mi pare, anzi, uno degli standupper più pacificati, e non è mica facile (di solito è più: «Sono in camerino con un comico che amo moltissimo. Anche oggi ne raccolgo lo sfogo; si sente trascurato dalla sua agenzia, non utilizzato abbastanza, sottopagato, forse pure vittima di una macchinazione politica», da La riunione di Pietro Galeotti, Feltrinelli). Tristissimo è, se mai, il mondo che racconta, cioè il nostro. Un mondo diventato (sempre stato?) meschinissimo, squallidissimo, appunto tristissimo.
Se è vero che la stand-up vale più di tanti editoriali (è vero), il suo act è, ancora una volta, quello che inquadra perfettamente il tempo che stiamo vivendo. “Il punto di Dave Chappelle”, per dirlo à la Otto e mezzo di Lilli Gruber, comincia dai pronomi che usiamo per definirci; che, al posto di aiutarci a stare meglio come dovrebbero, ci rendono, appunto, ancora più tristi. (Anche il nuovo Scene da un matrimonio comincia dai pronomi, ma prendendoli molto sul serio: è anche da quelli che si capisce la tenuta di una coppia, fa intuire la ricercatrice sul gender che intervista Oscar Isaac e Jessica Chastain.)
Un mondo tristissimo, dicevo. In quanto standupper “ricco e famoso” (parole sue), Chappelle è abituato all’aggressività – quando non alla vera e propria aggressione – da parte degli altri. Solo che per lui è tutto materiale: sugli attacchi che gli arrivano (tuttora) da gay, trans, donne, pure qualche nero, non ci fa una storiella vittimista su Instagram: ci costruisce monologhi interi. È uno di quei comici che – citando sempre Galeotti e il suo bel saggio/autofiction/forse romanzo – la platea la dribblano, la anticipano: «Chiunque faccia il, si presenti come, sia convinto di essere un comico può contare sulla mia incondizionata solidarietà. A patto che: dichiari di essere in grado di uscire dal ricatto della battuta; rifiuti la ricerca compulsiva del personaggio da parodiare; non rida prima ancora di aver terminato la battuta; non cerchi di inseguire il pubblico, ma pretenda di precederlo».
Anche stavolta con Chappelle si ride tanto, ma malamente. Il mondo che ci squaderna di fronte è tristissimo, dicevo. Ed è su questo che Chappelle fa leva continuamente, fino al capitolo su Daphne, la standupper transessuale di San Francisco: no spoiler, ma è il più triste (e struggente, e umano) di tutti.
Il mondo di Chappelle, il nostro mondo, è un mondo “contro”. Un grande Squid Game in cui tutti sono contro tutti. Poveri contro poveri, poveri contro ricchi, e pure ricchi contro poveri, e ricchi contro ricchi (questo lo dice bene anche la terza stagione di Succession, ma ci tornerò su quando uscirà da noi, a novembre). Questo è sempre accaduto, direte voi. Sì, ma ora ci sono tutte le aggravanti: i social, i pronomi, pure le pandemie.
Dunque all’ordine del giorno abbiamo anche: bianchi contro neri, neri contro bianchi (l’unica partita che lo stesso Chappelle si sente ancora di voler giocare), e maschi contro femmine, femmine contro maschi, etero contro gay, etero contro trans. Fino al caricone del nostro tempo, che in teoria ci dovrebbe rappresentare meglio e invece ci ha incasinati, ci ha intristiti. Chappelle ci mostra più e meglio di tutti il triplo salto mortale a cui siamo arrivati: gay bianchi contro neri (etero o gay); neri gay contro neri etero; donne contro donne (con upgrade: femministe contro femministe); trans contro trans; eccetera.
Sono le nuove regole dell’aggressione, e Chappelle le mette tutte in fila. Sono i distanziamenti reali e virtuali che ci siamo imposti prima ancora che arrivasse il virus a dividerci: dai mean tweets ai toc toc sul finestrino della macchina per mandare qualcuno a fanculo, tutto l’universo obbedisce al disamore.
La fine del mondo è già arrivata: «Ho sempre parlato di noi», afferma più o meno Dave Chappelle per dirci che il casino in cui siamo finiti ce lo siamo confezionati da soli, e ormai ci riguarda tutti. Poi non può esserci più niente, anche se in fondo persino The Closer un mezzo happy ending ce l’ha. Non so cosa aspettarmi, dopo, nemmeno dallo stesso Chappelle. So solo che, comunque andrà, Space Jews lo voglio vedere. Adesso.