In questi mesi mi pare che non si parli troppo delle serie, parlano tutti dei film, sembra di essere negli anni ’90, l’ultima fase, forse, in cui il cinema era centrale, poi sono arrivati i Soprano, Carrie Bradshaw, la Prestige Tv, eccetera. Ora tutti si schierano pro o contro Anora, e vanno a vedere gli uomini&donne di Paolo Genovese, e si rammaricano per aver perso Flow (ma è uscito di nuovo in sala). Delle serie non parla nessuno, forse adesso un po’ del Gattopardo, ma anche lì per fare il confronto col film – quel film.
Delle serie non parla nessuno e allora lo faccio io. Ma parlo di due serie in particolare che sfuggono all’algoritmo, che si sono infrattate per bene, che ribadiscono cosa devono essere le serie: una cosa più vicina al romanzo che a un film, perché se no – appunto – ci sono i film.
Quello è il punto. Negli ultimi anni ci siamo tutti detti e abbiamo tutti scritto che le serie erano il nuovo cinema. E in parte è vero: per la gran parte dei finanziamenti che si è spostata lì, per gli interessi coinvolti, per lo star system (o aspirante tale). Poi però è successo che quella cosa lì è stata presa un po’ troppo alla lettera, e – sto semplificando – le serie sono diventate semplicemente dei film lunghi. Cioè: storie che potevano essere raccontate in due ore sono state dilatate a otto/dieci puntate, poi ridotte a sei perché anche i più bravi allungatori di brodo si sono resi conto che il dado non bastava più.
L’altra cosa per cui si diceva che le serie erano il nuovo cinema erano i registi, passati – per i finanziamenti di cui sopra, soprattutto – dallo schermo grande al piccolo. In molti casi continuando a fare i loro film, solo dilatati a otto/dieci puntate… insomma, vedete sopra. Ma le serie sono una cosa più vicina al romanzo, dicevo, ed ecco, in questa stagione in cui si parla di film, due registi di cinema che questa cosa l’hanno capita.
Di Dieci Capodanni un po’ si è scritto in giro. L’ha ideata Rodrigo Sorogoyen (insieme a Sara Cano e Paula Fabra), il regista spagnolo, fra quelli di nuova generazione, più talentuoso, esaltante, capace di leggere il presente. Non devo citarvi io Che Dio ci perdoni, Il regno, Madre, soprattutto As bestas, e ancora di più – parlando di serie: ne ha scritte e dirette molte – Antidisturbios, uno dei copioni più politici (le grandi città, la questione immobiliari, il ritorno delle classi sociali: e no, non sto parlando del Salva Milano) e insieme thriller, ganzi, stupefacenti degli ultimi anni di Tv.
Dieci Capodanni – presentata all’ultima Mostra di Venezia e distribuita, saggiamente, da RaiPlay – inquadra il presente dei sentimenti dei primissimi millennial; sentimenti che sono traballanti, spesso egoisti, infragiliti, minati da lavoro, famiglie, amici, sesso, orologi biologici, persino pandemie. È un saggio di scrittura, ma mai compiaciuto come quando noi dobbiamo segnalare che “ao’, qua ce sta l’autore!”; e che, dicevo prima, contravviene a ogni algoritmo, ogni regola della nuova scrittura televisiva (comprendendo le piattaforme, si capisce), ogni inizio anti-slow burn e ogni cliffhanger finale – scusate le parolacce.

Le quattro sorelle di ‘Asura’ di Hirokazu Kore’eda. Foto: Netflix
L’altro grande autore passato di recente a una serie (a una grande serie) è il magnifico Hirokazu Kore’eda. Asura è su Netflix da un po’, son sette puntate che valgono come un lungo romanzo e infatti il romanzo (di Mukōda Kiniko) alla base c’è. Tra i gialli di Matsumoto Seichō e il solito immenso Ozu, quattro sorelle scoprono che il padre anziano ha un’amante, e questo fa venir su tutto: i loro sentimenti e risentimenti privati, i drammi, le gioie, la tragicommedia della vita. “Questo mondo contiene solo comicità”, dice un personaggio citando, guarda caso, un libro. “La tragedia è meglio della comicità”, fa l’altro. Alla fine convergono e convengono: “Tutto è comicità, alla fine resta una sola domanda: vita o morte? Quella è tragedia”.
Vita o morte, in Spagna come in Giappone. “Siamo solo umani”, dicono a Tokyo, e quella è sempre la chiave. Umani dai sentimenti complessi, sfumati, oltre le tipizzazioni (algoritmiche?) richieste dalla maggior parte della serialità corrente. Sono complesse le donne, e gli uomini, i giovani, i vecchi, sono complessi i segreti che si portano dietro: dai disegni erotici nascosti da anni (anche le mamme giapponesi di ieri non dicevano tutto…) ai vocali di WhatsApp che fino all’ultimo, in una Madrid piovosa di fine anno, possono decidere i destini di oggi.
“A volte le cose più vecchie vengono buttate via: la gente ha sentimenti più forti per l’amore che viene dopo”, dice una delle quattro sorelle di Asura per giustificare, o almeno tentare di comprendere, i tradimenti altrui. Per fortuna non ci siamo persi tutto per strada. I romanzi di una volta, le serie che non vogliono diventare il nuovo cinema (cfr. il solito The White Lotus, parlando di romanzi seriali), ma che se poi le girano i bravi registi “da cinema” tanto meglio. Restano le frasi che, come nei romanzi, ti tieni per sempre, anche se qui non le puoi sottolineare. Io mi tengo quella che dice, a un certo punto, il patriarca fedifrago di Kore’eda a proposito dell’invecchiare: “Una volta che sali gratis sui mezzi, è finita”. Ma questo adesso non c’entra o forse sì, se la vita è come un romanzo russo, o spagnolo, o giapponese.