Lo guardate ancora Westworld? Se avete abbandonato perché disorientati dalle trame letteralmente labirintiche, dall’andirivieni temporale e/o dall’eccessiva quantità di spiegoni filosofico-fantascientifici, non siete i soli: partita col botto nel 2016, subito pronta a proporsi come agognata erede di Game of Thrones, nella seconda stagione la serie di Jonathan Nolan e Lisa Joy è diventata sempre di più un affare per fan duri e puri, per quei super appassionati impegnati ad anticipare risposte e districare misteri in infiniti thread su Reddit.
Se avete rinunciato a dare una chance alla terza stagione di Westworld vi siete persi, però, almeno un paio di cose. Prima di tutto: pare che anche Jonathan Nolan e Lisa Joy (o gli executive di HBO per loro) si siano spaventati per l’eccesso di cerebralità e abbiano optato per un aggiustamento, almeno parziale, di rotta. La terza stagione di Westworld, che si è conclusa domenica 3 maggio negli Stati Uniti (e, in contemporanea in versione originale, su Sky Atlantic), è filata via molto più dritta e molto più action delle precedenti, avanzando a passo spedito su un’unica linea temporale (a parte qualche obbligatorio flashback) in soli 8 episodi anziché i soliti 10, limitando al minimo la confusione tra piani reali e virtuali, e tutto sommato fornendo molte risposte alle tante domande che poneva man mano. Per quanto riguarda gli spiegoni, beh, c’è poco da fare: quelli fanno profondamente parte del DNA della serie, e anche del suo fascino.
Seconda cosa che potrebbe esservi sfuggita: in uno dei primi episodi di questa terza stagione compaiono David Benioff e D.B. Weiss. Proprio loro, gli ormai detestati autori di Game of Thrones in persona, in un brevissimo cameo. È una strizzata d’occhio “aziendale” – entrambe le serie sono HBO, appunto – e destinata solo ai fan più esperti (quanti tra gli spettatori normali sanno davvero che faccia hanno Benioff & Weiss?). È anche una strizzata d’occhio super meta: i due compaiono in una delle stanze dalle pareti trasparenti di cui è fatto il dietro le quinte del parco giochi Delos, impegnati a programmare un drago artificiale (e non un drago qualunque, a guardarlo bene sembra proprio il povero Drogon: ecco dov’è finito dopo aver giustamente abbandonato Westeros al proprio destino).
Fin dal principio Westworld è sempre stata abbastanza esplicita nel suo essere una metafora, oltre che di diverse altre cose, anche della produzione di uno show televisivo: il parco funzionava come una serie interattiva ambientata nel vecchio West, con squadre di sceneggiatori impegnate a edificare ruoli e archi narrativi per personaggi (gli host) e spettatori (i guest), supportati da orde di scenografi, costumisti, truccatori, e con i dirigenti ai piani alti a far fruttare l’impalcatura dell’intrattenimento per intascare i dividendi, il tutto parte di una più ampia e tentacolare corporation multinazionale.
Insomma, l’apparizione di Benioff & Weiss sta lì a sottolineare questa equivalenza: la Delos è HBO, e ognuno dei suoi parchi è una serie creata per catturare la nostra attenzione. Ma, a guardare più da vicino, le similitudini tra Westworld e Game of Thrones non sono poche: potranno pure appartenere a due generi diversi, il fantasy e la fantascienza, ma entrambe dipanano intrighi, esplorano mondi/regni, allineano morti eccellenti ed eccellenti resurrezioni, interagiscono con il pubblico sfidandolo a partecipare al gioco, vantano una splendida colonna sonora di Ramin Djawadi. Ed entrambe rischiano costantemente di deludere le aspettative del pubblico, dopo averle gonfiate al massimo.
E poi c’è un personaggio principale che sembra la declinazione della medesima storia in due contesti apparentemente diversi: Dolores Abernathy è la Daenerys Targaryen di Westworld. Non è solo che entrambe sono bionde, con gli occhi azzurri, hanno un nome che inizia per D e sono interpretate da attrici (Evan Rachel Wood/Dolores ed Emilia Clarke/Daenerys) dalla bellezza abbacinante. Condividono anche la stessa origin story: iniziano la propria storia ingenue e inesperte del mondo, praticamente bambine; sono considerate oggetti, merce di scambio, e vengono vendute dai propri “familiari” a uomini violenti; subiscono, ancora e ancora, abusi e sciagure, e nel frattempo iniziano una sorta di risveglio, di illuminazione interiore che le porta ad ascendere a un nuovo piano di comprensione – ed è a questo punto che sviluppano anche una certa passione per i discorsoni solenni. Quello che succede, e nel caso di Dolores succede alla lettera, è che prendono coscienza di essere costrette in un ruolo assegnato loro da un sistema crudele, e decidono di ribellarsi, spezzare le catene e scrivere da sé il proprio personaggio, la propria storia. In un’esplosione di infuocato empowerment, si vendicano violentemente, facendo strage dei propri nemici, e presto finiscono per identificarsi con una figura messianica, determinata a “spezzare la ruota” (Daenerys), a “distruggere il mondo” (Dolores). Si vestono perfino spesso dello stesso azzurro!
La vera differenza tra Dolores e Daenerys, quella che conta davvero, sta nel modo in cui gli sceneggiatori hanno gestito la loro storia: per la quasi totalità di Game of Thrones, Daenerys ci è stata presentata come un’eroina. Violenta, certo, e imprevedibile, e perseguitata dalla follia che scorre nella discendenza Targaryen. Ma ogni volta che ha liberato schiavi, ucciso oppressori e aiutato il popolo di Westeros a sconfiggere gli Estranei, ci è stato chiesto, come spettatori, di partecipare del suo trionfo, di stare dalla sua parte, perché era in fondo quella giusta. È per questo che buona parte del pubblico si è sentita “tradita” dal suo repentino trasformarsi nel “mega-mostro” finale, nell’ultima stagione. Dolores, invece, è sempre e da sempre ambigua: può risultare anche frustrante, con quel suo modo di parlare per aforismi e grandi rivelazioni sulla vita, l’universo e tutto quanto, ma è così che ci lascia sempre un’ombra di dubbio, anche nei momenti in cui vorremmo abbandonarci totalmente alla gioia della sua rivoluzione. «E se, una volta che ti sceglierai il tuo ruolo, sarà quello del villain?» le aveva già chiesto Ford, molti episodi fa. È la stessa storia – una storia potenzialmente interessantissima – che volevano raccontarci Benioff & Weiss con la parabola di Daenerys: come una salvatrice può trasformarsi in una tiranna. Ma, volendoci prendere di sorpresa, hanno finito per svuotare questa storia di senso, e ci hanno pure fatto rimanere malissimo.
In tutta la sua aggrovigliata e spesso frustrante complessità, Westworld ci dice che villain si diventa per scelta, una decisione dopo l’altra, e non per destino, o imposizione superiore: così Dolores, la sua storia e i suoi colpi di scena restano imperscrutabili e imprevedibili fino alla fine. E forse a Benioff & Weiss conviene davvero farsi ancora un po’ d’esperienza in quella stanzetta nel dietro le quinte di Westworld, per il futuro.