Sono tanti i motivi per cui Peaky Blinders – di cui il 10 giugno Netflix rende disponibile la sesta e ultima stagione – è stata e sarà una serie indimenticabile. Purtroppo l’impressione è che proprio quest’ultima possa essere la meno avvincente delle sei. Beninteso: naturalmente siamo davanti a un’altra straordinaria parata di tweed porn e di coppolafilia. Forse nella storia della televisione l’estetica di un gruppo criminale non era mai stata definita con tanto gusto per i dettagli e per la coerenza anche simbolica dell’insieme. Peaky Blinders ha ridefinito una volta per tutte cosa voglia dire prestare attenzione ai costumi e al trucco di una serie.
Ad esempio, è difficilissimo, se non impossibile, trovare un prodotto mediatico che abbia fatto tanto per l’affermazione del doppio taglio. Non è certo un caso se barbieri di tutto il mondo continuano a ricevere richieste di Peaky Blinder’s cut, sia da modelli di successo come campioni della Premier League che da compagni di classe da non imitare assolutamente. Ogni testa è una storia a sé. Per Tommy Shelby, il nostro protagonista – sempre in conflitto tra la prospettiva di fare più soldi uccidendo la gente e fare meno soldi senza uccidere nessuno (salvo qualche parente) – si tratta di rappresentare sulla sua testa l’auspicata separazione delle carriere tra nuca e cranio, luci e ombre, morbido ciuffo e ruvido contropelo.
Arthur, suo fratello, è già una testa completamente diversa: il suo è chiaramente espressionismo astratto, del cui linguaggio è interprete solo la posizione che assumono, di scena in scena, quegli strani ciuffi semoventi, sfuggenti o riportati. La serie proporrà anche un modello di gangster irrealisticamente elegante, ma gli Shelby non lo sanno e si vestono così lo stesso. Tutto ciò può contribuire a creare delle false aspettative nella futura classe dirigente malavitosa britannica, ma niente che non possa essere risolto da una ricerca su Google Immagini dei veri Peaky Blinders in un giorno di festa.
Un altro motivo molto importante del successo di Peaky Blinders è ancora estetico: la serie ha stabilito il canone per l’uso anacronistico della colonna sonora in una rappresentazione in costume, dopo tanti tentativi anche illustri (uno tra tanti: Marie Antoinette di Sofia Coppola). In Peaky la musica (Nick Cave & The Bad Seeds, White Stripes, Arctic Monkeys) è come una quarta parete che si infrange continuamente e sonoramente, e di certo è un modo più elegante di fare i conti con la metanarrazione di uno scambio come quello che avviene, in una delle nuove puntate, tra Tommy e sua moglie Lizzie: “Parli delle cose che ci succedono come se le guardassi su uno schermo”.
Infine, e forse il motivo più importante di tutti, è che le prime cinque stagioni di Peaky Blinders sono state talmente amate dal pubblico, pur essendo solo distribuite da Netflix e non anche prodotte – non potendo contare dunque sul marketing aggressivo cui siamo abituati per serie firmate da Netflix come Strangers Things o The Crown, ma dal passaparola (e che passaparola), con il picco assoluto costituito da David Bowie che esalta la serie e che propone da sé i diritti su alcuni suoi brani.
L’esasperazione da graphic novel di alcuni particolari (prima tra tutti: la coreografia della violenza, da non rifare a casa) che ha contraddistinto le prime stagioni della serie – e che tanto ha contribuito a renderla un fenomeno culturale – nella sesta stagione si rende più composta dal punto di vista balistico ma anche più inquietante da quello psicologico, sottintendendo drammi domestici e diplomatici sempre incipienti, cosa che però tende a non dare la stessa soddisfazione cui siamo abituati tramite lame o proiettili.
Tramontata la stella polare di zia Polly (a causa della tragica scomparsa della sua interprete) il fulcro femminile della serie non riesce a essere in alcun modo sostituito da altri personaggi, pure se le candidature non mancherebbero. È come se, dovuto dare l’addio a Polly, gli autori sembrano aver voluto dare spazio solo a donne o non determinanti per la trama o caratterizzate in modo estremamente negativo, come la Esme di cui si conferma l’avidità a sfondo mistico o la Gina di cui si massimizza l’utilità a scopo erotico. Per tutta la sesta stagione, il ruolo di due personaggi femminili di spicco come Ada e Lizzie non è altro che, più o meno rispettosamente, esprimere la propria rabbia rispetto a come vanno le cose, in particolare perché le fa andare così Tommy. Almeno Ada sembra aver fatto ripetizioni da fine dicitrice con Zsa Zsa Gábor.
È fuori discussione la qualità del casting. Prendete il personaggio – amatissimo dal pubblico – del gangster ebreo dalla lingua biforcuta Alfie Solomon. La dinamica tra Tom Hardy (Alfie) e Cillian Murphy (Tommy) proprio in questa sesta stagione tocca una delle vette più alte di una lunga tradizione di dialoghi basati su matrioske di bugie. Proprio quando emerge una verità, simultaneamente, da una parte e dall’altra, la magia.
Quello che non va, nella sesta stagione di Peaky, non è nemmeno questione di mancanza di realismo storico: anzi, il fatto che nella Gran Bretagna di inizio Novecento un tipo come Tommy Shelby possa sedere nei banchi della Camera dei Comuni è probabilmente uno degli elementi più verosimili del plot. In tutta la sesta e ultima stagione non c’è una sola azione di accecamento appuntito (“peaky blinding“) del nemico mediante lametta nascosta nella visiera del suo cappello. Se è vero che le coppole sanguinolente si lavano in famiglia, è vero anche che “qualche volta la famiglia è un riparo dalla tempesta, altre volte è la tempesta stessa”.
Nonostante la componente magica-gitanesca sia presente più che mai; nonostante la magnificenza visiva di certe inquadrature, come la più bella fotografia – forse – di tutta la serie, che ritrae la stalla della tenuta di Tommy come se fosse un quadro di Jan van Eyck; nonostante l’alchimia sempre più forte tra machismo giustificato dal trauma e psicologia camuffata da magia; nonostante tutto, il problema qui è che il dramma di Tommy resta sempre il medesimo: le persone sembrano ascoltarlo solo mentre le uccide. E questo naturalmente non vale per le volte in cui Tommy cerca di uccidere sé stesso, se non altro perché tende a farlo in solitudine (e a non concludere granché).
Verso ogni finale di stagione, in Peaky Blinders accade questo: Tommy commette un atto più o meno atroce per risolvere un grosso problema; capisce che non se ne è liberato affatto; alimenta nuovi conflitti interni alla sua famiglia; complica quei conflitti con forze esterne, possibilmente internazionali e molto odiose; commette un altro atto più o meno atroce, e si ricomincia. Solo che, nelle stagioni precedenti, ci si poteva permettere bellamente di lasciare il plot in sospeso. Nella sesta, essendo l’ultima, no, e da qui nascono i vizi peggiori. È tutta colpa della tragica assenza di Polly? Vorremmo poterla pensare così.
Il difetto principale della sesta stagione di Peaky Blinders, invece, sembra essere quello di non aver fatto nulla, tra tanti minuti di dialogo, di viaggi, di fascinazioni e soprattutto di iterazioni, per provare a dare una risposta coerente e interessante alla domanda che aleggia su tutta la serie, e che si era particolarmente sentita echeggiare sul finale della quinta stagione: può un Tommy Shelby cambiare? Può fuggire dalla Birmingham che ha trasformato a sua immagine e dall’Inghilterra che sembra aver fatto, di rimando, lo stesso con lui?
Inoltre, ci sono molti altri temi e personaggi i cui fili narrativi non sono risolti (basti pensare ad Arthur, lato Peaky Blinders; e l’asse fascista britannico-americano, lato antagonisti). Nessuno spettatore sano di mente può aspettarsi che il destino del giovane duca della Costa Sassone (no spoiler), per ordine dei Peaky Blinders, finisca qui. Un film d’epilogo à la Whiskey and The City o Downton Pub – non è confermato che esca, ma sembra necessario – avrà un bel da fare per colmare lacune e sciogliere nodi, che avrebbero potuto giovarsi di una risoluzione in un momento più opportuno: un finale di serie.
Insomma grazie, autori di Peaky Blinders, per certi dettagli come lo sfregio a forma di uno specifico quartiere di Birmingham che, a un certo punto, compare sul corpo di un personaggio. Una scelta veramente raffinata. Ma non sarebbe stato meglio dirci come andava a finire?