Ecco perché ‘Mo’ è una delle serie migliori che potete guardare ora su Netflix | Rolling Stone Italia
una risata non ci seppellirà

Ecco perché ‘Mo’ è una delle serie migliori che potete guardare ora su Netflix

Dopo una prima stagione passata in sordina, la storia-sitcom del comico Mohammed "Mo" Amer è diventata uno dei titolo più caldi del momento. Perché parla di identità (palestinese) e conflitti (personali e non) senza timidezze

Mo Netflix

La locandina di 'Mo'

Foto: press

Mo è il diminutivo di Mohammed ed è la storia semi-autobiografica, recitata in prima persona, di Mohammed “Mo” Amer: comico, autore e attore palestinese, nato in Kuwait nel 1981 e immigrato negli Stati Uniti a undici anni. In modo simile, il Mo Najjar protagonista della serie Netflix nasce in Palestina, ma presto si rifugia con la famiglia in Kuwait, per poi – con l’inizio della Guerra del Golfo – trasferirsi negli Stati Uniti, per la precisione a Houston, in Texas.

Lì parte la storia di Mo: quarant’anni, apolide, con una richiesta di asilo appesa da un ventennio e tutti i conseguenti guai che ne derivano. Nella prima puntata, Mo perde il lavoro a causa dei controlli dell’United States Immigration and Customs Enforcement (ICE), ed è solo la prima delle tante avversità con cui si trova a fare i conti. Ma dove finisce il sogno americano comincia la forza di una battuta. In Mo, ognuna dalle situazioni più drammatiche è spezzata dal ritmo perfettamente comico di una risata.

Mo | Trailer ufficiale | Netflix

La serie è composta da due stagioni, la prima è stata pubblicata nel 2022 e passata quasi in sordina. La seconda, invece, è arrivata in streaming a febbraio 2025, in un clima sociale e politico molto diverso. Mo ha catalizzato l’attenzione, ed è diventata la serie più vista su Netflix nella settimana d’esordio.

Qualcuno degli osservatori più attenti forse si ricorda del personaggio di Mo nella serie tv Ramy, in cui la storia è liberamente tratta dalla vita dell’attore di origini egiziane Ramy Youssef e che, non a caso, è co-autore di Mo insieme ad Amer, mentre la regia è in mano al regista di origini algerine Solvan “Slick” Naim. Mo è prodotta da A24, maison reduce da una serie di successi azzeccati. Manco a farlo apposta, ancora una volta hanno fatto centro, con quella che è la prima serie tv americana a essere interamente dedicata alla storia di vita di un americano-palestinese.

A fare di Mo una dramedy degna di essere vista e discussa è la restituzione di una realtà attuale e fedele nelle sue incasinate sfaccettature. La serie approfondisce la cultura palestinese, al di fuori delle rappresentazioni spesso parziali che arrivano dai media, molto più vicine a una narrazione del dolore che inclini a raccontare l’identità palestinese nella sua dimensione più umana e, in senso buono, banale: nella sua goffaggine e nella sua ironia, nei problemi relazionali e nell’attaccamento alla famiglia, Mo potrebbe essere un qualsiasi nostro conoscente.

Attorno a lui ruota un universo di personaggi, ognuno portatore di un tema centrale all’interno della serie, e di cui alcuni sono realmente ispirati ad amici e parenti del comico. Tra questi c’è il fratello Sameer (Omar Elba) grazie a cui si apre un discorso sulle neurodivergenze, sulla diffidenza nei confronti della terapia e la difficile, ma non impossibile, conciliazione tra fede religiosa e psicoterapia. Fondamentale nella serie è l’assenza presente del padre Mustafa, scomparso quando Mo era poco più che bambino in circostanze che vengono via via svelate, e il cui ricordo crea in Mo lutto e nostalgia, ma anche una sincera frustrazione nel provare a eguagliare la sua figura (idealizzata) senza mai riuscirci.

La famiglia Najjar comprende poi la sorella Nadia (Cherien Dabis), unico personaggio risolto della serie. Nadia ha sposato un canadese ottenendo quella green card che appare come l’unica soluzione sicura per ottenere la cittadinanza e, di conseguenza, l’occasione di una vita tranquilla. Poi c’è la madre Yusra (Farah Bsieso) con la sua saggezza e tutti quegli atteggiamenti genitoriali tra l’apprensivo e il risolutivo che ben riconosciamo. Uno degli aspetti simbolici più interessanti di Yusra è che fin dalla prima puntata viene mostrata mentre produce olio in casa, proprio come faceva con gli ulivi in Palestina e come non ha mai smesso di fare, anche in Texas.

L’olio, e il cibo in generale, sono in Mo un continuo simulacro di identità, campo di scontro tra culture: vedi i tacos con falafel che Mo vende nella seconda stagione; lo sdegno del protagonista verso il ristorante di cucina mediterranea Tari e il suo mix fusion che sa di appropriazione; la diatriba sulle origini del cous cous. L’olio, in particolare, è un portale per la via di casa: Mo tiene sempre con sé una boccetta di quell’olio e lo usa per pregare, come auspicio di buona fortuna, per curare il mal di testa o, semplicemente, da gustare con un po’ di pane e za’atar.

Vale la pena citare altri due personaggi. Lizzie Horowitz (Lee Eddy) è l’avvocata a cui Mo e la famiglia Najjar si rivolgono dopo anni in cui la loro avvocata di fiducia e conterranea palestinese, ha semplicemente finto di occuparsi della loro richiesta di asilo, senza mai arrivare al dunque. Così entra in scena la sua controparte “di origini polacche”, come la definisce Yusra. Lizzie, che si batterà con tutte le forze per ottenere giustizia per i Najjar e seguirà Mo nei suoi momenti più difficili, è uno dei personaggi attraverso cui la serie mette a contatto persone ebree e musulmane. Oltre a lei ci sono, per esempio, i due assidui frequentatori del bar di quartiere, uno israeliano e l’altro palestinese, che litigano costantemente ma continuano a incontrarsi per giocare a tarneeb. Così la serie mostra lo spettro di relazioni tra queste due sfere, con un realismo che Mohamed Amer ha preso dalle reali interazioni sperimentate nel corso della propria vita.

Chiudendo la carrellata troviamo di Maria (Teresa Ruiz), compagna di Mo di origini messicane: una donna in gamba che, nonostante le difficoltà, dirige la sua officina meccanica con spirito imprenditoriale. Sposarla renderebbe la vita facile a Mo, ma lui è talmente testardo che non vuole scegliere la via più semplice. È a partire dal personaggio di Maria che lo sguardo della serie Netflix si amplia, andando a parlare anche dell’immigrazione messicana negli Stati Uniti. A cavallo tra la prima e la seconda stagione, Mo finisce accidentalmente in Messico e non può varcare il confine per tornare in America, non avendo i documenti. Il tempo stringe: dopo 6 mesi deve tornare a Houston perché, insieme alla sua famiglia, è finalmente riuscito a ottenere udienza in tribunale per ottenere il diritto d’asilo. Così Mo, davanti ai continui rifiuti della burocrazia, segue la tratta illegale che porta le persone dal Messico agli Stati Uniti, tra coyote, guardie e centri di detenzione per migranti che segnano un affresco fin troppo reale della situazione al confine.

In Mo, ogni personaggio apre un discorso complesso: c’è la fine del sogno americano, il parallelismo tra messicani e palestinesi con la terra colonizzata, c’è il muro di Trump e quello tra Israele e Palestina. C’è l’amico arabo, Hameed (Moayad Alnefaie), che sposa un’americana bionda e si sente texano fino nel midollo, tra armi e cappelli da cowboy, e che non sorprenderebbe se alla ultime elezioni presidenziali avesse votato repubblicano per tenere altri immigrati fuori dai confini.

Un’altra riflessione importante in Mo è sul modo in cui processare le notizie di guerra, distruzione e morte che leggiamo quotidianamente, soprattutto quando toccano la terra d’origine. Ed è un po’ il percorso che hanno affrontato Mohammed Amer e gli altri sceneggiatori durante la scrittura della seconda stagione, la cui lavorazione è entrata nel vivo nel 2023.

Nel settimo episodio della seconda stagione, Nel campo dei sogni, Yusra e la figlia Nadia discutono animatamente: da qualche tempo Yusra controlla con angoscia le notizie sempre più cupe che arrivano dalla Palestina e ne soffre, tanto da isolarsi. Yusra non vuole dimenticare quelle persone e le tiene vive attraverso il dolore. Mentre si trovano sulla riva di un laghetto, Nadia raggiunge la madre e, sedendosi accanto a lei, dice: «Come li aiuta il fatto che noi stiamo in angoscia?». Poi continua: «Spetta a noi trasmettere chi siamo ai nostri figli […] è così che non ci annienteranno. […] Siamo più di dolore e sofferenza e non lo scoprirai guardando il notiziario».

In questa scena c’è una delle chiavi di volta della serie, la risposta al dubbio che tormenta Mo: come possiamo raccontare chi siamo? Ciò che mette nei guai Mo più di tutto è la sua ostinata rivendicazione d’identità. Davanti ai soprusi, davanti a chi lo disprezza per il suo status sociale o davanti a un ambasciatore americano che si rifiuta di usare la parola “occupazione” e preferisce la più confortante “conflitto”, Mo non riesce a stare zitto, a costo di perdere i privilegi che l’accondiscendenza gli avrebbe garantito.

Le due stagioni di Mo ruotano attorno a questo punto focale: il viaggio di Mo per diventare cittadino americano, sì, ma anche e soprattutto il progresso che lo porta a capire come essere fieri e saldi nella propria identità culturale. L’ultimo episodio della serie è girato a Burin, città natale della madre Yusra, dove i Najjar incontrano i parenti da cui sono stati lontani per anni, e si conclude poi all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, in una data non casuale: il 6 ottobre 2023.

Senza addentrarmi troppo nel finale, dirò solo questo: alla fine il nostro eroe trova le risposte alle sue domande. Nell’ultima sequenza, Mo chiude gli occhi e distende il viso, mentre risuona la frase pronunciata da Yusra: «Il mondo cercherà sempre di distruggerci. E quando lo fa, noi sorridiamo. Perché sappiamo chi siamo».

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