Qualcuno vi ha mai domandato «Qual è la tua serie tv preferita di sempre?». In caso affermativo, cos’avete risposto? Passano gli anni, ma il mio responso rimane sempre lo stesso, come una granitica e immutabile certezza: Mad Men. Il capolavoro firmato Matthew Weiner, andato in onda su AMC dal 2007 al 2015, ha una lista di meriti talmente lunga da elencare che rischierebbe di farmi andare fuori tema – e infatti ci sto andando –, ma il motivo per cui l’ho tirato fuori attiene a uno in particolare, ossia la scrittura dei personaggi. E mai, mai, mai nessuno toccherà le vette conquistate da Weiner con Don Draper (Jon Hamm) e Peggy Olson (Elisabeth Moss). Amicizia, insofferenza, ammirazione, una forma bizzarra d’amore, riverenza, devozione, ipocrisia, ambizione, risentimento, co-dipendenza: il rapporto professionale e personale tra Don e Peggy è stato il più multiforme, intricato e appassionante della storia seriale, capace sia di momenti di tenerezza da spezzare il cuore sia di episodi dove una durezza che non lasciava spazio a un minimo sindacale di umanità faceva da padrone.
Non ci sarebbe stato Don senza Peggy, e – aggiungo io – non ci sarebbe stato nemmeno Mad Men senza Peggy. La scalata di Peggy Olson, da segretaria intraprendente a copywriter di talento negli anni ’60, a Manhattan, in un’agenzia pubblicitaria dominata da maschi bianchi che giocano a chi ce l’ha più duro, rappresenta la metafora perfetta dell’emancipazione femminile e dei compromessi da raggiungere per ottenerla. Compromessi che, in primo luogo, vanno raggiunti con sé stesse. In un’epoca di storie tutte drammaticamente uguali tra loro, Elisabeth Moss ha dato volto in modo sublime (leggi: sei nomination agli Emmy) a una donna piena di contraddizioni; a volte frustrata; intelligente, tosta, in gamba e smaniosa di dimostrarlo; impaziente; che, non appena capisce che può nonché deve comportarsi da stronza, lo fa e ci gode pure.
Moss, losangelina classe 1982, arriva a Mad Men dopo essere passata dalla corte di Aaron Sorkin: a soli diciassette anni era Zoey, la figlia più giovane del presidente Jed Bartlet interpretato da Martin Sheen in West Wing – Tutti gli uomini del presidente. Una pietra miliare, una di quelle serie che hanno fatto l’età d’oro della tv e che hanno nobilitato la definizione stessa di serie tv: non più semplicemente uno sceneggiato o un telefilm, ma, appunto, una (rullo di tamburi) Serie con la S maiuscola. Dalla corte di Sorkin alla corte di Weiner il passo è breve, e da lì all’impero di Jane Campion figurarsi: nel 2013 Moss è la detective Robin Griffin in Top of the Lake – Il mistero del lago, co-creata e co-diretta appunto da Sua Signora Jane, ruolo che nel 2013 le vale un Golden Globe come migliore attrice in una miniserie.
Intensa, affascinante, magnetica: Elisabeth non è la classica bellezza hollywoodiana, è spigolosa, glaciale e non ispira certo un’immediata simpatia – sebbene nella parte di Anne, la giornalista di The Square (film di Ruben Östlund vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 2017) risulti quasi involontariamente comica e semplicemente deliziosa. Sempre nel 2017 è il turno della serie che la consacrerà, The Handmaid’s Tale, ideata da Bruce Miller e basata sul romanzo distopico del 1985 Il racconto dell’ancella, dell’autrice canadese Margaret Atwood. Non che nessuno avesse dubbi, ma Moss è di una bravura mostruosa nell’interpretare June Osborne, l’ancella assegnata alla casa del Comandante Fred Waterford (da qui il suo nuovo nome, Difred), e di sua moglie Serena Joy, rispettivamente Joseph Fiennes e Yvonne Strahovski.
Quell’anno Elisabeth Moss è l’asso pigliatutto ai Golden Globe, Emmy Award, Critics’ Choice Television Award, Satellite Award, qualsiasi Award: è la migliore attrice, e da lì non si torna più indietro. Vulture le dedica un ritratto pazzesco in cui la definisce «The Queen of Peak Tv», un chiaro riferimento alla Golden Age of Television, periodo caratterizzato da un gran numero di programmi televisivi “di alta qualità” acclamati a livello internazionale (che nostalgia, visto il sovraffollamento attuale). «È in ogni scena», racconta Joseph Fiennes, «probabilmente si sveglia alle quattro del mattino. È la prima a entrare e l’ultima a uscire, impara i copioni nel fine settimana e incide i voice-over in studio quando tutti noi abbiamo le nostre domeniche libere. Poi si mette il cappello da produttore e trascorre la pausa pranzo in riunione o guardando le riprese fatte. Mi vergogno a pensare alla sua straordinaria etica del lavoro».
L’incursione nella produzione ha portato Moss a ricoprire responsabilità sempre maggiori anche dietro la macchina da presa, al punto che, nel corso della quarta stagione di The Handmaid’s Tale, è stata la regista dei tre migliori episodi (The Crossing, Testimony, Progress). Contemporaneamente, macinava film (Old Man & the Gun di David Lowery; Noi di Jordan Peele; L’uomo invisibile di Leigh Whannell; The French Dispatch di Wes Anderson) e si preparava all’ultima fatica, Shining Girls, dal 29 aprile su Apple TV+.
La serie, creata da Silka Luisa e basata sull’omonimo bestseller di Lauren Beukes, è un thriller metafisico dove Moss – oltre che protagonista – è pure regista di due episodi, nonché produttrice insieme a Leonardo DiCaprio. Al suo fianco, colui che fu il Pablo Escobar in Narcos, un Wagner Moura praticamente irriconoscibile e in forma come pochi. La serie segue le vicende di Kirby Mazrachi (Moss per l’appunto), archivista di un quotidiano di Chicago le cui ambizioni giornalistiche si sono interrotte a seguito di una traumatica aggressione subita. Quando Kirby scopre che un recente omicidio rispecchia le dinamiche del suo caso, si trova a collaborare con il reporter Dan Velazquez (Moura) per scoprire l’identità del suo aggressore: peccato che, più si rende conto che questi cold case sono indissolubilmente legati tra loro, più i traumi personali e i ricordi offuscati consentono al suo aggressore di rimanere sempre un passo avanti alle indagini.
Un’altra “ragazza interrotta”, che Elisabeth Moss interpreta magistralmente, assicurandosi un posto di rilievo tra i Grandi che hanno fatto e stanno facendo grande la serialità televisiva. Lei rimane schiva: un matrimonio con Fereydun Armisen durato quanto un gatto in autostrada; un appartamento che adora nell’Upper East Side; due gatti randagi adottati e decisamente più longevi dell’ex marito; un’incrollabile fede in Scientology che spesso le è costata critiche da parte di media e pubblico. «L’idea che Gilead (il regime patriarcale teocratico di The Handmaid’s Tale, nda) e Scientology credano che tutte le fonti esterne siano malvagie e nel torto non è affatto vera. La libertà e la tolleranza religiosa, la comprensione della verità e la parità di diritti per ogni razza, religione e credo sono valori estremamente importanti per me», ha sottolineato su Instagram, ché oggi occorre rassicurare i fan, manco fossero bambini non in grado di accettare le contraddizioni dei propri beniamini.
Archiviate le sterili polemiche, dopo Shining Girls la rivedremo in Next Goal Wins di Taika Waititi – storia vera tratta da un documentario britannico del 2014 sulla disastrosa nazionale di calcio samoana, che nel 2001 arrivò a perdere una partita 31 a 0 – al fianco di Moss, Michael Fassbender, Rhys Darby e Will Arnett, che ha sostituito in corsa Armie Hammer, travolto dallo scandalo sessuale che l’ha coinvolto lo scorso anno.
Possiamo dire che Moss abbia fatto jackpot? Lei di certo negherebbe, ché le manca ancora di realizzare il sogno della vita: da habituée di Disneyland quale si professa, il suo obiettivo è riuscire a diventare membro dell’esclusivo Club 33, il ristorante segreto che è l’unico posto nel parco dove si possano bere alcolici e che richiede un fee d’entrata di 33mila dollari, più 15mila d’abbonamento annuale. Elton John, Tom Hanks, dico a voi: la volete invitare ‘sta ragazza o no?