Partiamo dalla fine, ossia da Euphoria (che ormai è diventata il mio principale riferimento culturale, e non me ne vergogno affatto). Sin dal primo episodio della seconda stagione siamo tutti rimasti spiazzati dall’improvviso avvicinamento tra Fezco (Angus Cloud), il pusher che sotto sotto ha una morale e dei princìpi – nonostante spacci a dei minorenni MDMA, ossicodone, oppioidi di vario genere, coca, erba eccetera eccetera; nonostante non si faccia problemi a pestare a sangue Nate Jacobs (Jacob Elordi); nonostante si renda complice nell’omicidio dell’inquietante Mouse (Meeko Gattuso) – e Lexi Howard (Maude Apatow), la sfigatella della compagnia, quella più regolare, normale, noiosetta che finora era stata (ingiustamente) snobbata. Non ne faccio mistero, ho fondato il Fezco Fan Club long before he was cool, un gruppo che oggi conta parecchi membri, tra cui un amico che m’ha subito mandato il seguente messaggio (cito testualmente): «Inizia la puntata e io subito immedesimato nella secchiona che vuole farsi trombare da lui».
Je suis Lexi Howard: sono quella che legge, studia, che ha un lavoro, dei sani valori e che vanta perversioni e devianze nei limiti dell’accettabilità sociale, che ha superato (o sta superando) comportamenti regressivi, conscia di non essere una cretina e che si reputa sufficientemente smaliziata. Tuttavia, l’attrazione per il reietto di turno, per l’underdog derelitto, sregolato e irrisolto col passato difficile e il presente senza speranze è durissima a morire. Mi consola il fatto di non essere sola: oltre al già citato amico di cui sopra, l’hashtag #Fexi è diventato in quattro e quattr’otto trend topic su Twitter, avvalorando la mia teoria: non esiste nulla di più immedesimabile dell’accoppiata secchiona e reietto.
happy valentines day to them and only them #Euphoria #Fexi pic.twitter.com/9mflS2JvXZ
— emily (@sapphicsvoid) February 14, 2022
Basta sfogliare rapidamente un Bignami della psichiatria per risalire ai motivi: il fascino esercitato da ciò che è diverso e lontano da sé; la volontà di redimere chi sta sulla cattiva strada; la noia; la consapevolezza di avere uno scopo, cioè la salvezza dell’altro, sebbene spesso l’altro manco vuole essere salvato; l’istinto da crocerossina; la seduzione del male (che è pure uno dei film più brutti di Daniel Day-Lewis); l’aura di mistero e tormento che questi individui posseggono e che è peggio di una carta moschicida. Mixate, shakerate, ed eccovi servita una delle sindromi più cavalcate nella vita reale, nonché nei film e nelle serie tv, dove – guarda caso – l’emarginato instabile è sempre, SEMPRE più figo del bravo ragazzo. (Euphoria chiaramente costituisce un’eccezione, non essendoci bravi ragazzi: il discorso sarebbe più complicato se includessimo Nate Jacobs, ma si parla di reietti, mica di psicopatici.)
Datare temporalmente l’inizio di un simile idillio non è semplice: sì, c’erano Dylan (Luke Perry) e Brenda (Shannen Doherty) in Beverly Hills 90210, però forse ero ancora troppo piccola, quindi sarebbe più corretto farlo partire con Giovani, carini e disoccupati. Correva l’anno 1994, avevo tredici anni e la storia d’amore fra Troy (Ethan Hawke) e Lelaina (Winona Ryder) mi segnò al punto da inciampare in tentativi di replica durante tutto il liceo: li cercavo maledetti, possibilmente musicisti (anche Singles – L’amore è un gioco fu una parte fondamentale della mia educazione sentimentale), preferibilmente taciturni; non disdegnavo una certa predisposizione al vizio, alle stramberie, a una velata supponenza e sfacciataggine. Il più delle volte mi ritrovavo con dei patiti di punk rock privi di qualsiasi velleità artistica, che si stordivano di canne dalla mattina alla sera e che, quando riuscivano a mettere insieme una frase, quella era di una banalità tale da farmi cadere braccia e palle insieme.
A lil NYC date #Fexi #Euphoria pic.twitter.com/P3INb8UU6X
— Angus Cloud (@anguscloud) February 14, 2022
Perché il reietto dei film e delle serie tv, in barba all’essere un reietto, è comunque capace di una sagacia e di una profondità che ti fanno dimenticare il tir di problemi che si porta dietro, cosa che – stando almeno alla mia personale esperienza – viene puntualmente disattesa nella realtà quotidiana. Ora, a distanza di anni e alla luce di scelte amorose più mature dopo aver collezionato una lunga lista di casi umani, sul grande e piccolo schermo continuo a fantasticare circa queste relazioni impossibili: Rory Gilmore (Alexis Bledel) e Logan Huntzberger (Matt Czuchry) in Una mamma per amica; Allison (Amy Locane) e Wade (Johnny Depp) in Cry Baby; Baby (Jennifer Grey) e Johnny (Patrick Swayze), che non era esattamente un reietto ma nemmeno un buon partito per Baby in Dirty Dancing; Sookie (Anna Paquin) e Bill (Stephen Moyer) in True Blood; Sandy (Olivia Newton-John) e Danny (John Travolta) in Grease; persino Madame de Tourvel (Michelle Pfeiffer) e Valmont (John Malkovich) nelle Relazioni pericolose.
La cosa più giusta la disse come al solito mia madre: facevo l’università lontana da casa e, all’inizio del secondo anno, persi letteralmente la testa per l’ennesimo reietto che mi strappò il cuore dal petto, lo stritolò tra le mani e ne fece tanti pezzettini che poi buttò per terrà e calpestò, sputandoci sopra. Ero inconsolabile, e al telefono la stressavo in continuazione: «Vedi mamma, tu non capisci, lui è uno ombroso, ha un sacco di rogne alle spalle, sai, la famiglia, è molto chiuso, parla pochissimo». La replica fu secca: «Ma non è che parla poco perché non ha niente di interessante da dire?». Gliene devo dare atto: nemmeno Fezco è un tipo loquace, però almeno quando chiacchiera con Lexi non le rifila certo delle stupidate.