L’ultima volta che abbiamo visto Fargo quasi tre anni fa, il suo creatore, Noah Hawley, aveva portato il franchise lontano dal suo territorio, sia fisicamente che demograficamente. La quarta stagione si svolgeva a centinaia di chilometri a Sud dei soliti luoghi del Minnesota e raccontava una storia ambientata nelle mean streets della Kansas City degli anni ’50. E dopo tre stagioni, in cui venivano mostrati tutti i peccati nascosti dietro la patina perbenista degli scandinavi-americani nell’Upper Midwest, questa nuova storia si concentrava su una guerra tra mafiosi neri e italiani.
È stato l’ambizioso tentativo di Hawley di dimostrare che il nome Fargo non doveva essere limitato al territorio definito dal cult dei fratelli Coen, ma – semplicemente – non ha funzionato. C’erano troppi personaggi, troppe sottotrame, e sia Chris Rock che Jason Schwartzman alla fine sembravano “sbagliati” come leader delle rispettive fazioni mafiose. Con alcune eccezioni – come l’omaggio al Mago di Oz in bianco e nero, uno degli episodi migliori dell’intera serie – Hawley, forse mirando troppo in alto, non è riuscito a centrare il bersaglio.
La quinta stagione del dramma antologico (dal 22 novembre su Sky Atlantic e in streaming su NOW, a sole 24 ore di distanza dalla messa in onda statunitense) è un dietrofront così ovvio dalle deviazioni della precedente che si apre con una definizione sullo schermo di “Minnesota nice“, un concetto fondamentale per il modo in cui Fargo si muove di solito. Tutta l’azione si svolge nelle aree urbane e suburbane del Minnesota o in una contea rurale del Nord Dakota dall’altra parte del confine. Gli accenti sono marcati, la falsa cortesia aggressiva e c’è neve ovunque. Sebbene i personaggi non siano tutti tipi à la Marge Gunderson o Molly Solverson – due dei poliziotti di quest’anno sono interpretati da Lamorne Morris e Richa Moorjani – la nuova storia è molto più in dialogo sia con il film che con le stagioni precedenti rispetto all’anno di Kansas City.
Siamo nell’autunno del 2019, con una trama che non potrebbe essere più diretta nel raccontare il divario culturale sempre più ampio e sempre più arrabbiato dell’America. Il primo episodio, scritto e diretto da Hawley, inizia con una rivolta violenta. Mentre la macchina da presa si allontana, vediamo che le persone stanno cercando di farsi a pezzi a vicenda nel bel mezzo di una riunione del consiglio scolastico per pianificare il festival autunnale locale, dove Dot Lyon (Juno Temple) è rannicchiata su una sedia, con le braccia attorno alla figlia Scotty (Sienna King). Quando i poliziotti arrivano per sedare la situazione – e per arrestare Dot, che ha colpito con un taser un uomo che pensava stesse cercando di attaccarla – uno di loro si lamenta: “Cosa sta succedendo al mondo. Vicino contro vicino”.
Da lì conosciamo la suocera di Dot, Lorraine (Jennifer Jason Leigh), una donna imperiosa che insiste affinché Dot, Scotty e il marito di Dot, Wayne (David Rysdahl), imbraccino dei fucili mentre posano per la cartolina di Natale. Lorraine ha costruito una fortuna riscuotendo debiti dai poveri e non prova altro che disprezzo nei confronti di chiunque si trovi al di sotto del suo gradino nella scala socioeconomica. Quando la poliziotta locale Indira Olmstead (Moorjani) tenta di sfidarla in un episodio successivo, Lorraine insiste freddamente sul fatto che la polizia esiste solo per proteggere coloro che sono già ricchi e potenti.
Sebbene Lorraine rappresenti gran parte di ciò che è andato storto nell’esperimento americano, il villain principale della stagione è Roy Tillman (Jon Hamm), sceriffo di lunga data di una contea del Nord Dakota che governa come fosse il suo regno privato. Roy è il tipo di persona che crede che sia suo compito scrivere le leggi che governano il suo popolo, e che combatterà fino all’ultimo per impedire alla società di evolversi. In una delle prime scene, lo vediamo picchiare un marito violento, per poi dire immediatamente alla moglie maltrattata che è sua responsabilità evitare di subire danni in futuro stando più attenta ai bisogni sessuali del suo uomo.
Roy è anche il marito dal quale Dot – il cui nome non è ovviamente Dot – è scappata anni prima. Il suo arresto la inserisce nel sistema, avvisando Roy della sua nuova identità e attirando vari scagnozzi – da un eccentrico sicario di nome Ole Munch (Sam Spruell) all’idiota vice/figlio di Roy Gator (Joe Keery) – contro di lei. Ma Dot si rivela molto più intraprendente e creativa nel complottare e nell’usare la violenza – tipo Kevin McCallister meets MacGyver meets un animale selvatico (Ole Munch la paragona a una tigre) – di quanto ci si aspetti.
Parliamo insomma di un nuovo super cast di attori che interpreta il greatest hits di Noah Hawley, perché Fargo si appoggia a quello che ha sempre fatto meglio. E non c’è assolutamente niente di sbagliato nel dare alle persone ciò che vogliono, specialmente quando parliamo di Jon Hamm, Juno Temple e Jennifer Jason Leigh.
Hamm è un fuoriclasse nell’interpretare i cattivi. L’essenza villain di Roy Tillman sembra perfettamente in sintonia con il dono della star di Mad Men di incarnare avatar macho di un’epoca passata che sono confusi e arrabbiati perché le cose stanno cambiando. È allo stesso tempo minaccioso e patetico, soprattutto in una scena deliziosa in cui Lorraine nota che Roy vuole la libertà senza responsabilità, poi spiega che solo un tipo di persona sulla Terra può averla: “Stai combattendo per il tuo diritto di essere un bambino”.
Ci sono parecchi bambinoni inutili, presuntuosi e cresciuti al motto di “Make America Great Again”, in questa nuova stagione, al punto che persino il genio di Dot per le armi improvvisate può portarla solo fino a un certo punto. Tra i tre protagonisti, Temple è sicuramente quella che si avvicina di più alla caricatura, ma la serie ne è consapevole e alla fine stabilisce una ragione per cui l’accento e gran parte della personalità di Dot sembrano una messinscena.
Leigh è l’ultima di una serie di attori dei film dei Coen ad apparire nella serie, unendosi ad artisti come Billy Bob Thornton e Michael Stuhlbarg. Lorraine non è esattamente il tipo di donna degli anni Quaranta che Leigh interpretava in Mister Hula Hoop dei Coen, ma è ugualmente altezzosa. È un piacere guardare Lorraine – e, a volte, il suo avvocato baffuto e con la benda sull’occhio, Denmark Graves – fare a pezzi chiunque non le piaccia.
Danish è interpretato dal comico Dave Foley, che porta avanti due delle tradizioni di Fargo versione seriale. Primo: ha un nome pittoresco che vi rimarrà in testa per sempre (*). E secondo: Foley interpreta il personaggio come se avesse ancora almeno un piede dentro uno sketch di Canaglie della comicità, ma funziona. Come molti film dei Coen, la serie riesce a incorporare un’ampia varietà di stili di performance che sembrano non avere nulla a che fare con la storia stessa, anche se alla fine ci hanno a che fare, eccome. In questo caso, quel miscuglio ha anche una risonanza tematica, perché gran parte della stagione riguarda i personaggi che si chiudono nei propri orticelli, completamente incapaci di immaginare come sia l’esistenza di qualcun altro.
(*) Nel complesso, però, Hawley è molto più moderato con i nomi rispetto alla quarta stagione, che presentava personaggi come Deafy Wickware, Doctor Senatore, Rabbi Milligan, Constant Calamita ed Ethelrida Pearl Smutny, tra molti, molti, molti altri.
La collisione di questi character, con le loro visioni del mondo estremamente contrastanti, fa andare avanti velocemente la stagione, così come le varie scene in stile Mamma, ho perso l’aereo in cui Dot respinge le forze di Roy. E mentre i nuovi episodi per molti versi sembrano riproporre conflitti e idee più ampi delle stagioni precedenti, questo è anche il momento in cui la serie si avvicina di più al puro horror, sia attraverso le azioni di Roy che con la violenza selvaggia di Ole Munch, il cui retroscena è… non spoileriamo troppo. Anche in una stagione che cerca deliberatamente di non sorprendere il pubblico ma di dargli quello che si aspetta, il livello è abbastanza alto da far sembrare ciò che ci è già così familiare parte del divertimento.