Le cose sono due: lacrime mie o lacrime tue. Così va sempre, tranne che in Fleishman a pezzi, dove le lacrime sono di tutti. Il marito piantato, la moglie sparita, i figli, gli amici. E però com’è che si ride così tanto? Com’è che questa tragicommedia è così irresistibile che, nonostante il dolore, ne vorresti ancora, e ancora, e ancora? Il dolore pure di noi – di me – che guardiamo. Lacrime mie in senso letterale: alla fine della serie, per me è stato uno strazio.
Mai ci fu – ci metto un assoluto perché, si sa, in questo tempo la memoria è brevissima; o forse è brevissima perché sono vecchio – serie più generazionale di questa, per noi neoquarantenni, o appena pre, o appena post. Jesse Eisenberg, cioè il protagonista, cioè il marito piantato, ha l’età mia precisa. E le due donne della sua vita – la moglie e la migliore amica – sono facce di film che, a distanza di anni, la mia generazione l’hanno segnata: la prima, Claire Danes, ha fatto ovviamente Romeo + Giulietta di Baz Luhrmann; l’altra, Lizzy Caplan, è nel teen movie retrospettivo più bello di sempre, vale a dire Mean Girls. L’altro amico del protagonista è Adam Brody, ovvero il tipello di The O.C.: devo aggiungere un altro commento a proposito di questo fatto generazionale?
Dunque, ecco tutti i pezzi del puzzle della nostra vita. La vita di noi che, a quest’età qui, entriamo in crisi, mandiamo all’aria tutto, smettiamo di pensare al futuro perché ci fa paura scoprirci improvvisamente vecchi e torniamo a rifugiarci nel passato, nei compagni di liceo, nella musica della nostra giovinezza (qui, come nelle nostre cassettine dell’epoca, Smashing Pumpkins, Fatboy Slim, Sade).
Alla base c’è il romanzo di Taffy Brodesser-Akner (edito in Italia da Einaudi), che l’ha adattato a serie (dal 22 febbraio su Disney+). Toby Fleishman (Eisenberg), neodivorziato, cerca flirt da poco sulle app, rivede i vecchi amici, perde la dignità di fronte ai figli costretti, nei giorni in cui sono con lui, a stare in uno squallido bilocale a Midtown, mentre mamma si è tenuta la casa di lusso in uno dei due Upper lassù. Ma poi la moglie/mamma sparisce all’improvviso, dov’è andata non si sa. E con lei spariscono un po’ tutti, e le loro certezze, e la vita di lavoro (lui medico, lei agente teatrale), scatti di carriera, frequentazioni presentabili che si erano confezionati senza accorgersi di tutto il resto, come in quell’ultima magnifica canzonetta di Colapesce Dimartino.
Il buco nero è anche letterale: c’è una scena bellissima e dolorosa col papà che porta i bambini al Museo di storia naturale per entrare dentro il Vantablack, il nero ricreato dall’uomo che vale come vuoto assoluto, come nulla quasi siderale che inghiotte. Può esserlo anche una vita apparentemente normale, anzi, come si dice oggi, privilegiata? Sì, può.
Siamo dalle parti di Noah Baumbach, ma ho pensato anche a certe cose di Bogdanovich, e ovviamente c’è tantissimo Woody Allen, dopotutto il font scelto per il titolo è lo stesso (Windsor Light Condensed) dei credits suoi: che bello che qualcuno non lo censura, anzi te lo sbatte in faccia come citazione dichiarata. C’è naturalmente Mariti e mogli (pure la coppia della migliore amica si ritroverà in odor di separazione), e quel titolo che, almeno nella doppia traduzione italiana, non può che ricordare Deconstructing Harry. C’è Eisenberg, che con Allen ha fatto To Rome with Love (l’episodio più bello) e Café Society (sottovalutato come molti degli ultimi); e Danes (gigiona, ma che le vuoi di’) e Caplan (fenomenale, usatela di più, usatela sempre), che in un film di Woody ci starebbero benissimo.
È bellissimo, furbo, disperante, definitivo, almeno per noi neoquarantenni sempre lì a “pensarci giovani”, come ci hanno insegnato a fare, quel finale di cui vi dicevo prima. Non posso spoilerare, vi dico solo che è come la vita, vi dico solo: “Cosa ti aspetti se / Sai già come va a finire?”.