Non amo autocitarmi, non si fa, ma molti anni addietro, quando partì (nella bolla della bolla della bolla) il fenomeno Dix pour cent – e, soprattutto, quando ancora postavo le frasette sui social – scrissi: auguri a fare una roba del genere in Italia, dove non abbiamo uno star system. Anni dopo, le cose sono cambiate? No, nì, forse. In ogni caso Call My Agent – Italia (dal 20 gennaio su Sky e in streaming su NOW), questo il titolo anglofono per ragioni di franchise, l’hanno fatto, ed è uscito benissimo. Nemo propheta in Twitter, almeno non io, anche se in realtà eravamo in molti (nella bolla della bolla della bolla) a trovare rischiosissimo l’adattamento presso noialtri. I francesi c’hanno Isabelle Huppert, Juliette Binoche, Isabelle Adjani, Jean Dujardin, Jean Reno, pure Monica Bellucci, che si sono arraffati come la Gioconda; c’hanno i divi veri che il mondo conosce, mentre noi – e questa era l’obiezione delle obiezioni (nella bolla della bolla della bolla) – c’abbiamo Boris.
Call My Agent – Italia è invece riuscito per vari motivi. Il primo: aver indovinato il cast degli agenti, prima ancora che quello delle star rappresentate. Lo sapete, o forse no: Call My Agent, come l’originale francese, racconta della CMA, fantomatica agenzia del cinema ora italiano, cioè romano, alle prese con i vizi, le bizze, i lazzi, le strizze dei suoi illustrissimi clienti. Di par loro, gli agenti hanno beghe sentimentali, famigliari, ovviamente professionali, a comporre quell’orizzontalità narrativa (chiedo scusa) che si contrappone alla verticalità (richiedo scusa) delle storielle che riguardano i guest cosiddetti.
Era un cast difficile – come del resto lo era nell’originale – perché gli agenti dovevano essere professionisti ma non troppo famosi (non più famosi dei famosi “veri” dentro la serie, quantomeno), e neanche troppo “attori” (non più delle Huppert e delle Binoche di contorno, quantomeno). Dunque il cast degli agenti: sorprese sorprendentissime (Sara Drago, dal teatro milanese per fare Lea, cioè l’Andréa francese), conferme sicure (Maurizio Lastrico, Marzia Ubaldi, Francesco Russo, Sara Lazzaro), altri nomi dal teatro che si prendono quest’altra scena con classe (Michele Di Mauro), esordienti assolute o quasi (Paola Buratto, Kaze), più il cavallo pazzo Emanuela Fanelli, che non è agente ma costola dell’agenzia, vale a dire l’attrice mitomane che però nessuno vuole e dunque s’attacca come un cane a quel che resta del cinema italiano.
Il cast degli ospiti: Paola Cortellesi iconic, come si dice oggi, nel kolossal etrusco-americano Tuskia; Paolo Sorrentino che rifà quasi il suo Capuano dispensatore di consigli di vita (e di condotta romana); Matilda De Angelis sempre più autoironicamente diva; Pierfrancesco Favino (feat. Anna Ferzetti) che si percula da solo nella cosa che gli riesce meglio (no spoiler); Stefano Accorsi gigante, dategli tutte le serie comedy, sempre come si dice oggi, in lavorazione; Corrado Guzzanti che vabbè, è Corrado Guzzanti.
Funzionano bene varie cose. Il tono che insieme celebra il cinema italiano che fu (vien voglia di farsi raccontare dai pochi che restano tutte le storie su Giovanna Cau, Carol Levi, tutti quanti) e però mette subito le mani avanti: sì, siamo peracottari nati, e va bene così. La Roma molto Great Beauty forse un po’ fantasy (quanti bistrot!) ma inusualmente splendente. L’aggiornamento (applausi alla sceneggiatrice Lisa Nur Sultan) al Dibattito corrente, ma fatto principalmente per divertirsi e divertirci: la puntata starring Matilda coi post scomodi (vabbè) cinque anni fa non si sarebbe manco potuta scrivere. La consapevolezza del fatto che oggi le maglie del cinema – della produzione audiovisiva in generale – sono molto più larghe, e dunque gli americani che girano in Italia come ai tempi di Ava Gardner (che però ora può essere in house) non è così peregrina. Funzionano il cagnetto Marcello al posto dell’originale Jean Gabin, “l’entusiasmo immotivato”, Ivana Spagna e Luciano Ligabue (anche qui no spoiler), li purpi “che sento proprio miei”, e i sottotesti, i pizzini, i dice-dice che forse capiranno in pochi, o forse no.
Ecco, più di tutto s’apprezza il fatto di aver reso il cinema, in tempi (ormai eterni) di cinema morente o dato per morto (cfr. il bellissimo funerale messo in scena da Chazelle in Babylon), uno sfondo ancora interessante per delle storie, qualunque esse siano. Uno sfondo anche in senso letterale: in tutte le stanze della CMA sono affissi i poster del cinema italiano che fu e che è. E certo, vedi la locandina di Io la conoscevo bene e pensi “madonnanonlifacciamopiùifilmcosì”, e però poi ci sono La grande bellezza e Chiamami col tuo nome, Il traditore e Non essere cattivo, ed ecco, forse non avremo uno star system al foie gras, ma non siamo nemmeno così sfigati.