Siamo a metà cavalcata, e non parliamo di quella tra Jon e Dany sui draghi nel primo episodio, con tanto di bacio davanti alla cascata che era uno sfacciato fan service. Ce l’hanno menata per tutto Game of Thrones che “l’inverno sta arrivando”. E nel giro di una puntata, La lunga notte, ovviamente epica e dark che più dark si muore, l’inverno è arrivato. E se n’è andato in meno di 80 minuti. Una sòla, direbbe qualcuno.
La battaglia di Winterfell è pur sempre il combattimento più lungo e complesso mai girato nella storia della tv, alzi la mano chi non è rimasto ipnotizzato davanti allo schermo. Ma bisogna dirlo: la regia e la fotografia in Blackwater, Hardhome e nella Battaglia dei Bastardi erano decisamente una spanna sopra, anche se, almeno nelle ultime due, la luce del giorno ha reso tutto più facile (però per favore non lamentatevi che qui non si vedeva niente, dai).
Il rischio era che l’episodio sembrasse una lunga sequenza di World World Z o simili e, per evitarlo, la battaglia è stata raccontata spaziando fra tre generi, come spiegano anche i creatori, Weiss e Benioff, e il regista Sapochnik nel video backstage del terzo episodio. L’idea ha funzionato. All’inizio è tutto basato sulla suspence: il miglior modo di creare l’attesa è quello di far sentire che il nemico (o meglio, la Morte) c’è, senza mostrarlo. Nella seconda parte, La lunga notte diventa un horror: Arya entra nella biblioteca di Grande Inverno dove non deve fare rumore per evitare di attirare l’attenzione degli zombie. Ed è subito A Quiet Place. L’ultimo blocco è quello action, con Jon Snow che cerca di arrivare da Bran, i vivi ormai sopraffatti dai non-morti e Arya che infilza il Night King con il pugnale di Ditocorto (salvando poeticamente il fratello con la stessa arma che era stata usata per tentare di ammazzarlo nella prima stagione). Eppure, sul piano narrativo, ne La lunga notte c’è qualcosa che non convince del tutto.
E non parliamo del fatto che a uccidere il Night King sia stata Arya e non lo stesso Jon, anche se Kit Harington ci è rimasto male quando lo ha scoperto. Voglio dire, Jon Snow è il personaggio più vicino alla figura di eroe che ci sia nella serie, con un arco narrativo alla “sarà per forza lui a salvare l’umanità”: viene introdotto come bastardo degli Stark, si arruola nei Guardiani della Notte, muore e resuscita (perché avrà un ruolo nella lotta contro gli Estranei, pensano tutti) viene acclamato a gran voce Re del Nord e scopre di avere sangue Stark e Targaryen, il perfetto connubio tra ghiaccio e fuoco. Il Night King in persona gli lancia pure il guanto di sfida in Hardhome. Chi altro può togliere di mezzo il re degli zombie? Ma Game of Thrones è diventato Game of Thrones sovvertendo qualsiasi aspettativa su chi sia il vero eroe della storia e facendo fare una brutta fine a chi lo sembrava (Ned Stark!). Quindi arriva Arya – e tanti saluti al titolo di salvatore di Westeros, Jon. Ovviamente ci siamo alzati in piedi sul divano quando la piccola Stark ha pugnalato il Re della Notte, perché si è chiuso un cerchio: Arya ha passato tutta la sua giovane vita a prepararsi per questo momento, Melisandre aveva predetto che la ragazzina avrebbe chiuso molti occhi (anche BLU) e le tante resurrezioni di Beric Dondarrion finalmente hanno trovato un senso. Quella di Arya come deus ex machina è stata una scelta poco ovvia e coraggiosa (anche se non sappiamo quanto George R.R. Martin abbia indirizzato gli showrunner sulla storia), inevitabilmente però si discuterà a lungo su come l’assassina più letale della serie sia volata dal Re della Notte con una mossa da Avengers e un rallenty che sfida ogni legge non scritta di Game of Thrones.
Che l’esercito di zombie si sarebbe sbriciolato o accasciato a terra una volta colpito il boss, invece, era già stato ampiamente anticipato, tanto da essere esattamente quello il piano di Jon Snow. Eppure, dopo che la serie ha speso tempo, (molti) soldi ed energia dietro quella storyline, il modo con cui Arya ha messo fine all’Apocalisse incombente a metà dell’ultima stagione è stato fin troppo repentino, come dire: la minaccia non sono MAI stati gli Estranei. La lunga notte ha messo in chiaro che quello dei non-morti era più che altro un costoso e terrificante diversivo dal gioco dei troni, e che la battaglia di Winterfell preparava al conflitto finale con quella che sembra ormai essere la vera villain della situazione: Cersei. Siamo certi che, mentre tutte le altre casate unite lottavano per la sopravvivenza, miss Lannister stava seduta sul Trono di Spade a sorseggiare vino.
Anche per quello che riguarda i caduti, la battaglia di Winterfell non ha esattamente soddisfatto gli standard di Game of Thrones: la potenza della puntata precedente, Il Cavaliere dei Sette Regni (la migliore della stagione in corso, finora), stava nell’attesa e nella risposta collettiva dei personaggi — certi di andare incontro alla morte — alla domanda “Cosa faresti prima della fine del mondo?”. In realtà a rimanerci secchi, almeno tra i protagonisti, sono stati soli Theon Greyjoy (che si è finalmente riscattato agli occhi di Bran, e nostri) e Ser Jorah Mormont, che se n’è andato molto cavallerescamente nell’unico modo in cui poteva: difendendo la sua khaleesi. E poi Melisandre, però ormai era anche ora che lo facesse. Per il resto si tratta di personaggi secondari come il citato Beric Dondarrion e Dolorous Edd. Menzione speciale per l’ultimo atto della tostissima Lyanna Mormont, che muore epicamente uccidendo un gigante zombie (applausi); per la colonna sonora di Ramin Djawadie (l’inquietantissimo tema The Night King è un capolavoro), per il momento nella cripta tra Sansa e Tyrion e per la sequenza in cui l’orda di Dohtraki, che sono i guerrieri più forti e selvaggi del mondo creato da Martin, durano meno di 30 secondi contro gli Estranei. Cersei, ora tocca a te.