***ATTENZIONE! L’articolo contiene spoiler su tutto il finale di stagione di Game of Thrones***
“Cosa unisce le persone?
Le storie. Non c’è nulla al mondo più forte di una buona storia.
Niente può fermarla, nessuno nemico può sconfiggerla”.
Questo è l’inizio del monologo con cui Tyrion convince i lord e le lady di Westeros che Bran Lo Spezzato (tra i peggiori nomi di re della storia) è la persona giusta per sedere sul Trono di Spade… o meglio, su qualunque altra cosa lo sostituisca. Non abbiamo nemmeno iniziato a scrivere e nella prima frase ci sono già almeno tre cose che ci hanno fatto alzare in piedi durante la visione dell’ultima puntata dell’ultima stagione di Game of Thrones. Ma andiamo per gradi. Le storie, dicevamo.
Sulle storie, sulle leggende, si fondano i Sette, ehm, Sei Regni, tanto che chi le conosce – pur fisicamente debole – sopravvive. Sulle storie, sui personaggi si fonda il ricchissimo materiale narrativo di George R.R. Martin. Sulle storie, sulle tante storyline si sono basate tutte le stagioni della serie supportate dai libri. E sulle storie – o meglio sulla sensatezza del loro sviluppo – sono caduti Benioff e Weiss quando non hanno più avuto niente su cui contare. È chiaro che la costruzione di una trama a ritroso sulla base di qualche indizio fornito da Martin era un compito tutt’altro che facile, senza contare che qualunque tipo di finale avrebbe scontentato qualcuno (come è successo per tutte le serie tv di culto), senza dubbio però i personaggi meritavano più di coerenza. Perciò la riflessione sul potere delle storie nel finale, peraltro da uno dei protagonisti migliori e peggio serviti dagli showrunner in quest’ultima stagione, ha in sé un’ironia terribile, tanto che a questo punto ti domandi se Benioff e Weiss non se la stiano andando a cercare. Tra l’altro l’annuncio che siano già al lavoro sulla prossima trilogia di Star Wars risponde chiaramente alla domanda: perché tutta questa fretta?
A costo di ripeterci, nella serie ce l’hanno menata fondamentalmente con due questioni: l’inverno sta arrivando e chi siederà sul Trono di Spade. Sbrigata la prima pratica nel giro di una puntata, The Long Night, il focus del mondo intero era su chi si sarebbe seduto su quel maledettissimo trono. E messi alle strette, Benioff e Weiss che fanno? Riescono a non dare una risposta alla domanda delle domande. Come? Il simbolo della serie, quello per cui tutti i personaggi hanno ucciso, tramato e tradito, viene letteralmente sciolto dal fuoco di Drogon – che tra chi ha ammazzato sua madre e il trono decide inspiegabilmente di far fuori il secondo – ennesimo grande gesto cinematografico che vince sulla costruzione ponderata della trama. Uno statement che suona un po’ come “Benioff and Weiss out” con tanto di drop di microfono. E no, Westeros non è ancora pronto per una democrazia rappresentativa.
Jon Snow, sempre più imbambolato/tormentato, ha appena compiuto il suo destino: dopo una lunga e tormentata lotta tra amore e dovere (che sembra quasi di sentire le vocine nella sua testa), ha scelto il bene superiore e pugnalato la sua dolce metà. Daenerys lo aveva guardato con disprezzo nella puntata precedente ma qui – in un’altra inconcepibile svolta alla Mad Queen – gli propone tutta esaltata di liberare il mondo con il fuoco e con il sangue insieme a lei. Lui si sveglia dal torpore e torna utile alla trama per qualche secondo. Sorry Dany, meritavi una fine migliore. Perché dopo l’intensa discussione sulla politica di genere che la serie ha stimolato con personaggi come Sansa, Brienne, Cersei, Daenerys e Yara, impegnate a rimodellare le strutture patriarcali di Westeros, e dopo aver sbrigato la faccenda Estranei in fretta e furia per lasciare spazio allo scontro tra due donne ambiziose, Dany e Cersei, vederle entrambe morte così è dura. Ma è Game of Thrones. A riparare a questo poi c’è Sansa che diventa (finalmente) Regina del Nord, dopo essere riuscita a renderlo indipendente in modo pacifico (sì, giuro). Anche se è sempre difficile dimenticare la frase detta al Mastino sulle violenze che l’hanno resa più forte.
Fatta fuori Dany, bisogna decidere che ne sarà di Westeros e dei cospiratori Jon e Tyrion. Ovviamente Sansa, Bran e soci arrivano a King’s Landing con l’ultimo, glorioso teletrasporto della serie. E cosa ancora più assurda, Tyrion, prigioniero, odiato da tutti e in particolare da Verme Grigio che lo tiene in catene, alla fine è colui che decide non solo chi sarà il prossimo re, ma anche come verranno scelti i sovrani d’ora in poi. Capisco che Tyrion sia ormai la coscienza di Westeros e che gli scrittori volessero dare al sempre strepitoso Peter Dinklage un gran monologo finale ma, wow. Ah, Samwell prova a tirare fuori la parola “democrazia”, ma gli ridono in faccia.
Il mood che ha guidato l’ethos della serie, “Nel gioco dei troni o vinci o muori”, non lasciava spazio a lieto fine. Quindi Game of Thrones decide di bruciare quel trono, fonte di caos e di guerre, e di seppellire il passato. Morte all’ancien régime per un nuovo ordine, basato sull’equilibrio, sull’ordine e sulla conoscenza. E ora ditelo voi ai Dothraki.
Tyrion sceglie Bran perché ha la storia migliore di tutti (e anche su questo avremmo da ridire) e perché è una specie di archivio vivente di memorie: imparare dalla storia per non commettere gli stessi errori (no comment). Nelle scorse puntate Bran è stato trascurato come contendente (perché, dai…) e la mossa per incoronarlo è arrivata con la solita velocità allarmante. I buchi di trama e i twist repentini si notano sempre di più, perché a questo punto la trama è tutto quello che resta. Ma ormai della plausibilità ci preoccupiamo relativamente. Dopo aver massacrato alcuni dei suoi personaggi migliori nella scorsa puntata, la serie prova a fare quello che può con chi resta. Insomma, prova a redimersi.
Nel nuovo consiglio ristretto del re ci sono Tyrion come Primo Cavaliere, il nuovo Comandante della Guardia Reale Brienne, il Gran Maestro Samwell, Ser Davos, Mastro delle Navi, e, ladies and gentlemen, anche Bronn, Lord di High Garden e Mastro del Conio, la cui prima preoccupazione è rimettere in piedi i bordelli di King’s Landing. Un siparietto di puro fan service.
Jon Snow viene spedito a Nord tra i Guardiani della Notte (avrà capito che non servono più?) e i Bruti, che gli sono leali non grazie al nome che porta, ma per quello che è. E sì, finalmente fa pat pat al povero e fedelissimo Ghost. Il montaggio incrociato dei fratelli Stark che camminano, ognuno incontro al proprio destino, è probabilmente la cosa più bella di questa puntata insieme all’apertura su Tyrion che cammina tra le ceneri di Approdo del Re. E ti incavoli pure un po’ perché Benioff e Weiss (qui anche registi) ce la fanno eccome quando vogliono: Sansa che viene acclamata Regina del Nord a Winterfell, Arya che decide di esplorare l’inesplorato, viaggiando “a ovest di Westeros”, una regione non mappata che ha tutta l’aria di essere la terra di un potenziale spin-off, e Jon, che esce da Castle Black per inoltrarsi nel profondo Nord insieme a Tormund e al Popolo Libero. Game of Thrones finisce (o forse no?) oltre la Barriera, dove era iniziato. Ora la missione di Jon è di riportare la vita in un luogo che la morte pensava di aver conquistato.
È vero che “Non c’è nulla al mondo più forte di una buona storia”, soprattutto se è raccontata bene. Ognuno ha il diritto di provare quello che vuole davanti alla fine di Game of Thrones. Dopo 8 anni e 73 puntate ce lo siamo guadagnato. I sentimenti possono anche essere contrastanti. Ed è bello che ci siano persone fermamente convinte di non aver sprecato il loro tempo. Perché io un po’ lo penso.