Facciamo che siete sul divano pronti per vedere la tv – circostanza già piuttosto comune, ma adesso più che mai – e non sapete decidervi su quello di cui avete bisogno per passare la serata. Vorreste qualcosa che unisca azione, un protagonista tutto d’un pezzo e una sana dose di spargimento di sangue. Un crime venato di pulp. No, un attimo: magari qualcosa di più sostanzioso di qualche semplice scazzottata. Un family drama, ecco. E perché non una roba alla Law & Order? Con un accento preferibilmente inglese, però. Buone notizie: esiste la serie che può darvi tutte queste cose, tutte insieme. In un colpo solo. Ed è stata lì sotto il nostro naso per mesi e mesi.
Andata in onda nel Regno Unito alla fine del 2019 e arrivata su Netflix nel gennaio del 2020, Giri/Haji – Dovere/Vergogna è, per farla breve, un centro commerciale capace di offrire tutta la vastissima gamma dei generi cinematografici. A prima vista pare un prodotto minore, a metà strada tra i titoli d’importazione straniera e gli stringatissimi serial polizieschi inglesi che la piattaforma di streaming mette a disposizione di tutti coloro che vogliono qualcosa di nuovo, tra una replica di Friends e una di The Office. (Considerato il crossover culturale del soggetto, sappiate che la serie è parlata per il 65% in giapponese e per il 35% in inglese.) Al centro, c’è la storia di due fratelli – Kenzo (Takehiro Hira), detective riservato e scrupoloso, e Yuto (Yôsuke Kubozuka), sicario al servizio di una famiglia della yakuza di Tokyo – e dunque, almeno al principio, la più classica storyline in stile Caino e Abele. Anche se non ci fosse nulla più di questo, ne uscireste comunque con un dramma classico, narrato con perizia e capace di regalare due performance intense e piene di sfumature. Immaginate una cover di Highway Patrolman di Bruce Springsteen tradotta senza sbavature e trasformata in una vera e propria saga.
Ma ecco un elenco parziale di tutto quello che vi regala in più Giri/Haji nelle sue otto ore complessive: il classico gangster movie giapponese, un road-trip al femminile in miniatura, la discesa verso gli inferi di un tossico, la parabola tra coming out e coming of age di un ragazzo omosessuale, una storia di fantasmi e una storia d’amore. Gli intrecci romantici sono parecchi, in effetti. E gli scagnozzi cockney eccentrici e vestiti di tutto punto? Non mancano, ovvio. Sesso? Un pizzico. Violenza? A pacchi. Animazione, danza contemporanea e l’ex volto degli spot della Apple Justin Long? La risposta non può essere negativa.
Quello che abbiamo appena descritto suona come un mix di sapori interessanti, ma che non pensereste mai possano stare bene insieme. Il fatto è che lo sceneggiatore/showrunner Joe Barton riesce in qualche modo ad amalgamarli in un modo che non solo sembra logico, ma ha quasi del miracoloso. Il suo non è un tentativo da disturbo da deficit di attenzione per prevenire l’eventuale noia dello spettatore; né un giochino per includere sempre qualcosa che possa piacere a chiunque, così da non scontentare nessuno. Questo è ciò che potrebbe succedere quando cerci di incrociare tra loro linee narrative totalmente diverse, assemblando i vari pezzi in un robottone alla Voltron che risulti soddisfacente per tutti.
«Qualcuno ha gettato una pietra in uno stagno molto lontano da qui», dice uno dei personaggi all’inizio della serie. «Noi stiamo semplicemente osservando i cerchi nell’acqua che ha provocato». Per essere più precisi: un uomo d’affari giapponese viene trovato morto nel suo appartamento di Londra, con una piccola katana infilzata nella schiena. Qualche giorno più tardi, a Tokyo, una sparatoria in un ristorante si traduce in un bagno di sangue. A Kenzo sono affidate le indagini. Il detective viene persino contattato da uno dei pochi sopravvissuti alla strage, un membro della yakuza che avrebbe dovuto essere il bersaglio designato. I due casi sono collegati tra loro, o almeno così pare. Perciò, previa autorizzazione da parte del suo capo (il quale, naturalmente, figura nel libro paga dei criminali), il nostro uomo viene mandato in trasferta a Londra. La scusa ufficiale del viaggio è la partecipazione a un seminario sulla “gestione della scena del crimine” tenuto da una collega di nome Sarah Weitzmann (Kelly Macdonald). In realtà, il poliziotto parte per cercare l’uomo che tutti ritengono responsabile di questo caos intercontinentale, un ex-cecchino che si nasconde nella vecchia Inghilterra mentre tutti lo danno per morto. Il quale altri non è – provate ad indovinare – se non Yuto. Ci sono da regolare un po’ di affari di famiglia lasciati in sospeso.
Ancora una volta, la classica rivalità tra fratelli si rivela più del solito pretesto a misura di miniserie. Giri/Haji ha il pregio di introdurre in continuazione nuovi personaggi e nuove piste, togliendosi spesso lo sfizio di sviluppare quelle deviazioni con la stessa profondità riservata alla trama centrale. Per esempio, cominciamo presto a scoprire qualcosa di più sul passato di Sarah, e sul perché sul lavoro la guardano sempre storto. Facciamo la conoscenza di Rodney (Will Sharpe), un escort di Soho che aiuta Kenzo per capriccio e per soldi, ma che al tempo stesso sta lottando contro i suoi stessi demoni. E, ancora, la figlia di Kenzo, Taki (Aoi Okuyama), un’adolescente disadattata espulsa dal suo liceo per aver accoltellato alle gambe un compagno dalla “mano lunga”; senza rivelare troppo, sappiate che anche lei avrà un ruolo centrale nella storia. Lo stesso vale per la moglie di Kenzo (Yūko Nakamura), la madre anziana (Mitsuko Oka) e un manipolo di bad guys tatuatissimi, agenti moralmente corrotti, lacchè assortiti e altre comparse, in questa faida tra fratelli schierati dalle parti opposte della legge.
Nonostante le tantissime digressioni e sottotrame da B-movie, Barton ha l’incredibile capacità di tenere tutto insieme. La sensazione di sentirsi di tanto in tanto spaesati è, con la giusta dose di pazienza, ampiamente ripagata. Quando ti trovi davanti alla classica spiegazione della stessa scena attraverso punti di vista diversi, senti la mano salda dell’autore sul timone. E una battuta pronunciata apparentemente per caso assume di colpo rilevanza, quando te la ritrovi in un flashback un paio di episodi più avanti. Una figura relegata sullo sfondo può prendersi inaspettatamente la scena. E tutto si collega. Ogni personaggio, alla fine, aggiunge qualcosa al quadro generale.
E quando i due registi della serie – Julian Farino, che firma i primi quattro episodi, e Ben Chessell, alla guida della seconda metà – si spingono in zone inesplorate, l’energia di Giri/Haji assume la forma e l’atmosfera del nuovo territorio in cui si è calata. I codici d’onore rituali, violenti e spesso sanguinari e le scene d’azione sono battaglie brutali senza dignità e umanità, che starebbero benissimo dentro qualsiasi thriller sullo sfondo della yakuza dei giorni nostri. Le parti romantiche sembrano prese in prestito da un romanzo young adult. Il viaggio in macchina nel sottofinale di tre personaggi apparentemente minori potrebbe essere un cortometraggio tra dramedy e buddy movie a sé. I toni della serie mutano di conseguenza, ma non in modo contrastante. E anche lo stile visivo eccentrico sembra pensato per accordarsi perfettamente a queste continue dissonanze. Una finestra temporale di 13 mesi è sintetizzata rapidamente ma dettagliatamente in meno di 10 minuti, mentre un personaggio che resta 20 secondi in silenzio si traduce in 20 secondi di silenzio reali. I riassunti “nelle puntate precedenti” sono resi visivamente come delicati acquerelli. E, nell’ultimo episodio, c’è una sequenza che ti fa pensare “che cosa cazzo sta succedendo?” e che al tempo stesso ti lascia a bocca aperta, perché è tanto emozionante quanto imprevista.
Se in Inghilterra non ha fatto troppo scalpore, questa meraviglia trans-culturale ha destato poca attenzione anche quando è arrivata negli Stati Uniti: date la colpa al tempismo, o alla mancanza di marketing, o al semplice fatto che Netflix mette a disposizione triliardi di cose, tutte in gara tra loro per finire sotto i nostri occhi. Un prodotto così inclassificabile (e, non dimentichiamolo, sottotitolato) non può che essere spazzato via dallo tsunami del palinsesto. Ma Barton e soci hanno gettato una pietra in uno stagno, e non c’è momento migliore di questo per osservare i cerchi nell’acqua provocati da questa serie. È quel genere di scoperta che non ti aspetti e che ti porta a una visione quasi ossessiva, soprattutto in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo. “Dovere/Vergogna” sono i due elementi che tutte le figure della serie hanno in comune. Ogni personaggio porta sulle spalle il fardello di un obbligo e rivela le cicatrici di disonori passati. Quando partono i titoli di coda dell’ultima puntata, alcune parabole hanno raggiunto la loro redenzione e altre sono finite, bruscamente oppure no, senza trovare una soluzione. Tutti, in ogni caso, hanno fatto il primo passo nel loro cammino perché quella prima parola, “dovere”, li costringeva a farlo. Nel giro di un istante, anche tu hai avuto il privilegio di procedere al fianco di ciascuno di loro.