I soprannomi dei mafiosi, dei camorristi, dei malavitosi, in generale, seguono le vie percorse dagli Heyoka, i celebri indiani contrari, che a volte nel loro ruolo di “disturbatori necessari” si esprimevano al contrario di ciò che pensavano. E così è valso per Marco D’Amore che, fatto fuori dalla serie alla fine della terza stagione, risorge, in pieno stile Gomorra, nella quarta. Ma per una volta non davanti alla macchina da presa, ma dietro. Già perché D’Amore ci stupisce positivamente come regista – la macchina della serie la conosceva ormai a menadito –, peraltro in due episodi cruciali della nuova stagione, il quinto e il sesto, che riscriveranno la geografia dell’universo della serie (i primi quattro sono affidati a Francesca Comencini, sempre più a suo agio nel genere, ma si era già intuito con A casa nostra, gli ultimi a Enrico Rosati e Ciro Visco, da anni anima del racconto come aiuto registi).
Gomorra 4, se vogliamo trovare un aggettivo, è soprattutto stupefacente.
Non solo per l’enorme presenza di droga e peso della stessa nella drammaturgia, ma anche perché potrebbe essere, scommettiamo, la più controversa di tutte le stagioni. Piacerà, e molto, a chi finora era tiepido verso l’epica e l’epopea dei boss di Napoli e dintorni e forse deluderà chi invece l’ha resa iconica, chi ne ha fatto rimbalzare le battute più celebri, chi ne ha replicato look e pettinature. Gomorra è un interessante, e in parte involontario, esperimento sociale: ha dimostrato come l’audiovisivo e in generale lo storytelling creativo abbia ancora un ruolo fondamentale e fondante nell’immaginario collettivo. Tanto da schiacciarne gli autori che, dopo la prima serie, clamorosa per tecnica, inventiva e impatto visivo, hanno dovuto sopportare il peso, in parte ingiusto, di quel successo. Come direbbero i The Jackal, che genialmente ne intuirono subito la potenzialità, l’effetto di Gomorra sulla gente. Le polemiche feroci e spesso ingiuste, si fondavano su una realtà che prescindeva da quella serie e si incentrava sulla tendenza, ben più estesa, degli ultimi anni di raccontare i cattivi senza contraddittorio visivo, prima che morale. Epici villain che non incontrano magistrati, poliziotti, che vivono la morte fuori campo, le cui vite sono celebrate e le fini sbrigativamente dimenticate (e a volte sublimate da ritorni clamorosi). Gomorra ne era stato l’apice e così gli autori per due stagioni hanno espiato, uccidendo qualsiasi personaggio avesse successo, portando al parossismo questa redenzione violentissima. A volte creando personaggi di spessore per ucciderli nella stessa puntata. Se nella seconda stagione, anche grazie alla permanenza nella serie di alcune delle icone preferite dal pubblico (Marco D’Amore e Fortunato Cerlino, il mitico Pietro Savastano), questo forse aveva persino contribuito a una crescita della serie, nella terza i nodi sono venuti al pettine e tranne i primi episodi (debitori e non poco del film Una vita tranquilla di Claudio Cupellini, che non a caso li diresse), causò un crollo nella qualità e anche nella presa sul pubblico.
La quarta è la stagione della maturità. Creativa, strutturale, recitativa. Se da una parte Salvatore Esposito si conferma una certezza e si toglie dal viso, dalle movenze e anche dallo sguardo alcuni istrionismi dovuti alla sua maschera, crescono tanto le donne: da Cristiana Dell’Anna (Patrizia, ormai centralissima nel racconto) a un’Ivana Lotito, moglie del boss modernissima, che è davvero la rivelazione – o meglio la conferma – di questo quarto giro di giostra. Interessante, però, è il salto in avanti a livello di contenuti e prospettive: Genny cerca di diventare il Micheal Corleone del golfo. E ci conferma che, nella realtà come nella finzione, i criminali più o meno organizzati alla fine cercano sempre una cosa: la rispettabilità, una vita onesta. Anche loro vogliono vivere felici e contenti e possono uccidere, squartare, sciogliere nell’acido ma poi se il figlio non è accettato all’asilo, se la donna boss non piace al futuro suocero capo-rione, se l’amico di sempre ti tradisce, si fanno il cuore piccolo piccolo e diventano cucciolotti indifesi. Che ti asfaltano appena possono, e in maniera crudelissima, ma sempre con un cuore di panna.
Politica, finanza d’alto livello (e truffe d’alto bordo), business che mettono insieme infrastrutture, cemento e monnezza. C’è tutto, e pure di più. Perché Leonardo Fasoli, Maddalena Ravagli, Enrico Audenino e Monica Zapelli, con Stefano Bises e Roberto Saviano, non si sono e non ci hanno risparmiato nulla. Sono entrati a gamba tesa nella realtà – l’aderenza politica ed economica di questa stagione è altissima – cercando anche qualche battuta illuminante e feroce.
Genny Savastano che guarda il suo futuro aeroporto e dice al suo direttore dei lavori Alberto (il sempre ottimo Andrea Renzi) che rinuncia alla triplicazione del valore dei terreni che gli darebbe il ministero per far sì che la città possa costruire e migliorare stadio, ospedali, strade e scuole, che di fronte all’entusiasmo dell’interlocutore – “Gennà, non ho mai sentito dire queste cose a nessun altro” – risponde “noi simmo ‘o cambiamento, Albé”, è geniale e raggelante. Soprattutto per l’uso che della parola cambiamento si è fatto negli ultimi anni. E così fa sorridere Sangue Blu – per gli appassionati del Gomorra old style, l’ottimo Arturo Moselli potrebbe diventare il nuovo D’Amore – che chiude un discorso con “stai sereno”. Perché, come dice Genny, deluso dal non essere il solo criminale senza scrupoli quando si alza la posta “la merda è merda ovunque, cambia solo ‘o colore”. E a quel punto ti rendi conto che forse questa non è la Gomorra della rivoluzione, non è la Gomorra che tira le somme sull’infamità delle vite di chi deve nascondersi nel lato oscuro, ma quello della conciliazione. Che Savastano, forse, è proprio da qui che ne uscirà più pulito. Lui che si è macchiato del sangue del padre e del migliore amico, lui che non ha mai fatto credere di essere Robin Hood. Che di fronte agli squali coi colletti bianchi e le parole giuste, in fondo, siamo persino più disposti a perdonarlo. E che non è Gomorra a essere immorale, ma è lo storytelling della realtà a fare schifo. A farci sembrare normale che un onesto professionista cerchi una via violenta a una controversia, che nella City di Londra organizzino truffe matrioska e che alla fine a farci la morale sia solo questo colosso che almeno ha avuto il pregio della coerenza. Non a caso qui il napoletano è sempre più intellegibile, i sottotitoli vi serviranno sempre meno. Si parla italiano, perché la discarica criminale, morale, antropologica abbia i confini di tutto il paese (anzi del mondo, altro che Brexit) e che non ci si senta rassicurati dal fatto che tutto succede tra Secondigliano, Forcella e Scampia.
Gomorra 4 è il Padrino parte III che incontra 1992. Ma che ha smesso di sta’ senza pensier’.