“Ma quanto sarà costata tutta ’sta macchina produttiva?” è forse la domanda più intercettata in questi giorni attorno all’uscita di Questo mondo non mi renderà cattivo. Il tormentone era già partito al Mattatoio di Testaccio, location romana che ha ospitato il mega evento organizzato per il lancio della serie, con Michele Rech che è apparso tipo divinità, si è beccato un consenso “a priori” con un applauso esagerato, e poi ha pontificato comesololuisafare: «State calmi rega’, ancora non l’avete vista. Magari è ’na merda e nun ve piace». Alla fine l’abbiamo vista e ci è piaciuta. Naturalmente. Che poi, il rischio che non piacesse era reale? Arrivati fin qui, a quale tipo di schianto può andare incontro Zerocalcare? Che la seconda serie piacerà un po’ meno della prima, nella maniera in cui a A Babbo Morto si preferisce La profezia dell’armadillo? Capirai, che tragedia.
Episodio finale (attenzione: segue qualche spoiler), Zerocalcare è in commissariato per l’interrogatorio dopo gli scontri con i nazisti (non fascisti – specifica lui – ma proprio nazisti, cioè «l’ultimo baluardo che ancora fatica a trova’ spazio nel mercato democratico», e già su questa battuta potremmo fermarci per un paio di giorni). Nelle sequenze precedenti aveva preso una dose massiccia di mazzate (sulle note di Sarà perché ti amo dei Ricchi e Poveri, tra l’altro), ma dall’azzuffata non ha riportato mezzo graffio. Da un punto di vista narrativo il dettaglio crea confusione, ma poi Calcare fa scacco matto: dichiara in scena l’errore di continuità. Usa un flashback e ci porta negli studi di animazione, dietro le quinte della produzione della serie. Lo vediamo entrare col suo aplomb da Peter Pan fricchettone e rivolgersi al team: «Oh, mi so’ accorto che dobbiamo rifa’ tutte le scene del commissariato da capo, perché mancano i segnetti in faccia». Follia, su un film avrebbero ucciso per molto meno. Su una serie d’animazione come la sua, invece, diventa l’ennesima trovata esilarante: «Diciamo che se semo accordati così». Ovvero: diciamo che ho recuperato un errore madornale con un guizzo che, a conti fatti, funziona pure meglio di un raccordo perfetto. Se l’aneddoto è inventato, non vogliamo saperlo: la scena rientra appieno nella mitologia calcariana.
Sul serio: arrivati a questo punto, c’era davvero il rischio che la serie non piacesse? Anche solo per l’effetto Vertigo scatenato da uno storytelling che fa in e out tra Easter eggs, meta-cinema e citazioni pop. Anche solo per le guardie in borghese che ascoltano Biagio Antonacci, l’autografo di Don Matteo appeso in commissariato, Secco che partecipa a un matrimonio vestito da Peaky Blinder, e vai così, a oltranza: è una caccia interattiva ed è la metà del gioco. Ma c’è un altro livello, più interessante, che inizia a raccontarci una storia diversa: il rimando continuo a Netflix e alla fama, in una sorta di autoironica presa di coscienza che sta tra il sodalizio e l’imbarazzo. Rech attacca da finto sbruffone, menziona il polverone ridicolo che aveva accompagnato Strappare lungo i bordi e riporta i titoli del 2021 a mo’ di breaking news: “L’incomprensibile strascicato di Zerocalcare”, “Esplode la polemica sul romanesco e Zerocalcare risponde: Madonna regà”. Poi lo sentiamo dire alla madre: “Io ho fatto ’na serie per Netflix, ormai faccio come cazzo me pare”, in un dialogo con Lady Cocca che potrebbe tranquillamente esistere nella vita reale.
Poi dà il meglio con il cameo del personaggio di Ludovico – il ragazzino lucertola di Roma Nord a cui faceva ripetizioni nella prima serie – ora introdotto con l’escamotage più autoreferenziale di tutti: la schermata Netflix switcha tra i titoli in catalogo e va a ripescare la scena di Strappare lungo i bordi. È tutta un’operazione di storytelling perfetto, anche quando va a braccetto col marketing (quello attorno al brand-Calcare, ma pure al colosso che lo produce). Per capirci: nell’ultimo episodio arriva perfino la citazione alla punta di diamante Netflix, con la scena spaccacuore della quinta stagione di Stranger Things, quella “con il ragazzino coi capelli a scodella che piagne perché l’amichetto suo se bomba Undici”. Ci sono Will in versione Secco e Mike in versione Zero: com’era la storia degli eccessi di romanesco?
Il pacchetto è irresistibile, ma il punto è un altro. Si è parlato di una seconda serie più divisiva, per le tematiche politiche anticipate già dal primo teaser (niente di nuovo per chi conosce Zerocalcare da sempre). Ad essere diviso, invece, è proprio Michele Rech, con il personalissimo meta-dramma di fondo che sta vivendo (sviluppato lungo tutta la trama orizzontale, al pari dei temi sociali) e che lo porta a fare un’analisi del successo piuttosto sui generis, considerando la natura originale del suo fenomeno: hai presente un fumettista di Rebibbia, pessimista e di sinistra? Ecco: cosa gli capita quando “svolta”? Quando iniziano a fermarlo per strada e dirgli: “Ao’, hai fatto i soldi, eh?”. Quando diventa il frontman di una crasi storica tra il fumetto politico e le piattaforme streaming (impensabile ai tempi in cui ha iniziato lui, con un blog autobiografico e le mani in pasta tra i fatti del G8 e il Forte Prenestino)? Il vero conflitto drammaturgico, nella seconda serie di Zerocalcare, nasce proprio dal post-Netflix di Zerocalcare. Questa è la novità. La linea che separa il giovane artista (“quello che fa i disegni”) dall’artista del presente (“quello che ha fatto i soldi”).
Basti pensare che, per Questo mondo non mi renderà cattivo, Rech ha avuto a disposizione una squadra di trecento persone (un centinaio in più rispetto a Strappare lungo i bordi, che già segnava un cambiamento radicale nella sua e nella nostra percezione). In soundtrack, oltre ai brani originali dell’amico Giancane, compaiono i Cure, i Clash, gli Oasis, i Moderat, i Cigarettes After Sex, Lou Reed. Insomma, non esattamente du’ spicci. Non è stato da meno l’evento organizzato alla Città dell’Altra Economia per il lancio della serie: il Mattatoio di Testaccio si è trasformato in un parco giochi a tema Calcare, una Disneyland wannabe con i cartonati dei personaggi, il Gabinetto degli Orrori del Dottor Calcare, la pesca delle ansie, la Bocca dell’Armadillo in stile Bocca della Verità e il food stand in stile Todin. Una mossa di marketing riuscitissima, ma anche spudoratamente capitalista e instagrammabile, giocata sul contrasto tra il mondo grezzo dei rave e quello ampolloso dello showbiz. Entravi punkabbestia e finivi a litigarti l’ultimo cuscino brandizzato che era rimasto a terra dopo aver pogato al live di Giancane.
Questo è il gap che Michele Rech ha percepito e addirittura anticipato nei sei episodi: è la più bella tra le sue crisi di coscienza, e la accetta (forse?) attraverso il personaggio-parodia del produttore cinematografico cocainomane che gli spiega come stanno i fatti: “Tu ci piaci esattamente perché sei così, non devi cambiare mai. Devi fa’ pippa. Ma è bello che mantieni questa tensione verso quello che sarebbe giusto fare. Basta che poi non lo fai. C’hai ’sti ideali altissimi, la maglietta col teschio, ’ste cose da ribelle. Poi però piaci a mi’ cognato che è uno che se mette a guarda’ il Grande Fratello Vip su Facebook. Hai capito, Ze’? Tu unisci. Quello devi fa’: unire, non dividere”.
E in effetti quello fa, quello gli riesce misteriosamente bene. Intorno a sé raduna una massa di tifosi con l’aspetto di una fauna informe: giornalisti che corrono a fare più attrazioni possibili, perché alla terza scatta il free drink; vip che si taggano all’evento mentre fanno networking; mezza polizia locale di Roma Capitale a fare ordine pubblico (è pieno di guardie, e anche questo fa sorridere); lo staff che gira con la t-shirt “Chiedi ma non ti accollare”; gli accreditati speciali che, con una certa spocchia, passano davanti ai fan storici in fila da ore, quelli che compravano i primissimi fumetti e che adesso entrano per ultimi. Dal maxischermo piazzato al centro di Zeroland, la sua voce squarcia tutta la messa in scena in corso: «Esci trionfalmente dal campo dei falliti rancorosi, e mo’ diventi titolare nella squadra dei magnati dai sensi di colpa, gli esecrabili, quelli che hanno svoltato da soli. Alla fine te svolti, ma comunque non te puoi gode’ un cazzo, perché intorno c’hai le macerie. E che cazzo de sciacallo sta bene nelle macerie?».
Ecco il nervo scoperto: fare soldi, per quelli come Zerocalcare, è uno spaccacapo. Quando mancano è un’ossessione, quando arrivano sembra quasi una maledizione. Non avere soldi, non averne abbastanza, non averne quanto gli altri, non nascere nel privilegio è un collante sociale potentissimo, è una questione identitaria e generazionale, è da sempre alla base dei suoi ideali politici e della sua produzione (se fosse cresciuto a Balduina sarebbero mai esistiti progetti come A.F.A.B., Kobane Calling o la collaborazione con Radio Onda Rossa? È giusto chiederselo). Però adesso Zerocalcare è anche “quello che ce l’ha fatta”, da solo e perché se lo merita, certo, ma è comprensibile che si chieda cosa comporterà. Mentre racconta la battaglia di Roma Est contro i nazisti del quartiere Tor Sta Ceppa che vogliono allontanare dal centro d’accoglienza un gruppo di immigrati dalla Libia, l’Armadillo disegna un cappio: al centro appare Calcare incorniciato tra due scritte, “traditore” e “venduto”. E lui dall’esterno osserva la parodia di sé: “Dobbiamo volerci bene, siamo tutti fratelli. Ora però scusate, vado a fa’ un’intervista a Cosmopolitan e una serie su Netflix. Beati voi che state in fila per anda’ a chiede la NASPI. C’è pure una bella giornata, magari vi abbronzate”.
Durante il terzo episodio, Il Faro (complessivamente, forse, il più intenso della serie), la resa dei conti esplode tra Zero e Sarah (personaggio storico nonché esempio morale della sua esistenza), ma soprattutto tra Zero e Cesare, bellissima new entry. Ex eroinomane appena tornato dalla comunità, militante nei gruppi neonazisti, chiamato a interpretare, nella catena alimentare machista della periferia romana, la parte di “quello forte a mena’“. Tuttavia, a legarli c’è un’insolita amicizia, quella “tra un carroarmato e una trota salmonata, ma che dentro hanno le stesse insicurezze”.
Zero cerca di illuminargli la strada, e invece è Cesare a buttargli giù la maschera: “Io devo da’ retta a te? Che me vieni a fa’ il pianto che lavori troppo? Ma che ne sai te? Stai a fa’ i soldi a racconta’ la vita tua con tutti ’sti deficienti che t’applaudono. Ma che ne sai che vor di’ quando non te se incula nessuno? Un cazzo de fantasma in un quartiere de merda dimenticato da Dio”. È un punto di rottura tragico e autentico, perché senza soluzioni. Il fumettista di Rebibbia, pessimista e di sinistra, che rischia di trasformarsi nel cliché del “maestrino de stocazzo”.
“Quanto è poco elegante anda’ a spiega’ come se campa a chi c’ha dumila cazzi che te ormai non c’hai più?”, gli fa notare l’Armadillo. Che te ormai non c’hai più. In quell’avverbio – ormai – c’è la sintesi di un abisso sociale: il distacco insanabile tra chi ci è nato, chi ci è arrivato e chi non ci arriverà mai, il senso di colpa verso gli amici che sono partiti con lui ma sono rimasti al punto di partenza, il disagio di tenere un piede nella periferia e uno dentro il mondo. È come se Calcare continuasse a chiedersi (e a chiederci): se questo mondo non mi renderà cattivo, mi renderà però un venduto? Un ipocrita? Uno che incassa senza rimorsi, girando le spalle alla nave degli altri che affonda?
Non sappiamo quanto gli faccia bene chiederselo, né se riuscirà a scongiurare gli effetti catastrofici del successo a lungo termine. Però (scusa, Calcare) ha ragione il produttore cocainomane: è il fatto stesso che lui mantenga questa tensione verso ciò che sarebbe giusto fare, a renderlo unico. Ed è il fatto che se ne preoccupi lui al posto nostro, il motivo delle nostre facce rilassate di fronte alla sua serie. Noi che stiamo sempre a “ridere sguaiatamente” oppure “coi mostri che ce strillano dentro”, ma che tranquilli e sereni non ci stiamo mai. Zero, tu unisci perché le crisi di coscienza nostre te le accolli te. Grazie.