Cresciuta a Napoli tra il Teatro San Carlo (dove cantava nel coro della stagione dell’Opera) e il Liceo Genovesi (dove studiava poco e manifestava per rimorchiare), quando Greta Esposito tornava a casa, come ogni teenager nell’era pre-streaming, si piazzava davanti alla tv per guardare le repliche di Gossip Girl, The O.C., Dawson’s Creek e Fringe. Oggi, invece, può capitare che una bambina di sei anni la fermi per strada piangendo: “Nina! Ma allora tu non sì muort’!”.
Impressionante? Un po’, se pensiamo che in una manciata d’anni l’adolescente che seguiva le serie cult del doposcuola è diventata un’attrice della serie cult del momento. Dopo Mare fuori e Mental, ora Greta Esposito è tra i protagonisti di Shake, nuovo teen drama targato RaiPlay, otto episodi ispirati all’Otello (e, non da meno, alla rivoluzione-SKAM Italia). Perché sì, c’è Shake come Shakespeare, ma anche come voce del verbo scrollare, emblema di un’epoca e della Generazione Z.
La carriera di Greta, classe 2001, viaggia al ritmo di un cambiamento lento ma sostanziale nella serialità italiana, e nel frattempo muove i primi passi nel cinema di Mario Martone (Qui rido io), Sydney Sibilia (Mixed by Erry) e Michele Vannucci (Delta). Mentre ne parliamo scopro che solo quando qualcosa la colpisce o la fa riflettere, lei esclama un «porca miseria!» sincero, di pancia, che si abbina benissimo alla sua aria da fumetto spettinato, ai suoi personaggi e al tentativo di nascondere un certo istinto che la caratterizza. E infatti è quando non si trattiene che c’è da divertirsi: «Io sono napoletana, ma di che stiamo parlando? Le cose che non sanno d’amore per me non sono neanche degne d’essere prese in considerazione. Se non c’è amore, ve ne dovete andare a fanculo».
Quello di Emilia è un personaggio secondario rispetto al triangolo Otello-Desdemona-Iago, però essere la ragazza di Iago (che in Shake si chiama Gaia) è molto attuale. Oggi diremmo che Emilia è vittima di una relazione malata con un narcisista.
È vero, l’ho pensato appena ho letto le sceneggiature. Anche perché verso la fine Emilia diventa il personaggio chiarificatore, grazie al quale si riescono a collegare i puntini. Ed è interessante che i nodi si sciolgano attraverso un personaggio secondario anziché protagonista, così come era interessante essere vittima di una relazione malata. Io amo tantissimo i ruoli piccoli, quelli che parlano poco. Nella serie che sto girando adesso mi capita di proporre di togliere qualche battuta, perché sono convinta che nella vita troppe parole scocciano. Dire e sviscerare rischia d’essere retorico. Penso sempre ai cani, che per fortuna non possono parlare e quindi riescono a dirti tutto.
L’Emilia di Shakespeare è una che dice “Anche a noi donne bolle il sangue”. Tu sei una che scrive “Fanculo le cose che non sanno d’amore”.
È così. Non a caso Emilia in Shake è la prima della sua fazione ad entrare in contatto con l’altra (Beatrice/Desdemona, nda). Alla fine anche lei, come me, è una che se ne fotte altamente di quelle che sono le dinamiche liceali e le etichette sociali. Mi sembra una cosa esagerata da dire, ma credo sia il mio approccio alla vita. Quando ho scritto “Fanculo le cose che non sanno d’amore” ero a Locarno per presentare Delta. Instagram mi annoia, non so fare i video in cui parlo, posto pochissimo, a volte addirittura posto e poi cancello. È che mettendo le mie cose lì sopra, mi sembra quasi di perderle. Però quella a Locarno era stata una serata bella e divertente, tra persone a cui volevo bene. Ho pensato: fico. Però fico solo se è così. Se invece devo andare per festival a interpretare un ruolo che non mi si addice, non mi va. Le cose che non sanno d’amore per me non sono neanche degne d’essere prese in considerazione.
Dillo più forte, please.
Oh, io sono napoletana, ma di che stiamo parlando? Se non c’è amore è tutto inutile, se non c’è amore ve ne dovete andare a fanculo.
Tra Nico, Emilia e Nina, per certi versi stai interpretando un’età mentre ancora sei impegnata a viverla. È straniante?
Lo è stato molto con il personaggio di Emilia in Shake, perché mi ha riportata nel contesto scolastico. È stato strano tornare al liceo a distanza di pochissimi anni, proprio tra i banchi di scuola. La mia ex compagna di banco ha visto la foto e me lo ha detto subito: “Amo’ ma sei tu, sei proprio tu quando stavamo al liceo”. Significa che funziona. Giulia Gandini (regista di Shake, nda) mi ha chiesto come mi vestivo in quegli anni, e io avevo sempre quell’acconciatura a mezzaluna, una sorta di cricca in testa tenuta su con la matita. Non mi pettinavo mai, ero un po’ fricchettona e un po’ punkabbestia. Non avevo ideologie politiche ma mi piaceva tremendamente il rappresentante di istituto, quindi ero sempre in prima fila ai cortei. Ignobile, eh? Così, per costruire il personaggio, in qualche modo abbiamo ricreato la Greta adolescente.
E in Shake si brinda al non diventare come i propri genitori, un evergreen dell’adolescenza. Greta che adolescente era?
Io ero molto in subbuglio emotivo. Frequentavo il liceo classico Genovesi, che è abbastanza rinomato a Napoli, ma non sono stata una studentessa modello, perché facevo molte altre cose: pianoforte, teatro, canto, recitazione, pattinaggio. Studiare mi piaceva, ma la mia mente era produttiva in altri contesti. Dai nove ai diciotto anni sono stata nel coro del San Carlo di Napoli, facevamo tutta la stagione dell’Opera. Capitava che stessi settimane intere lì dentro, è stata la mia famiglia ed è la prima cosa a cui lego la mia adolescenza. Il coro ti insegna qualcosa che ho ritrovato nel mio lavoro: l’ascolto. Nel coro sai di star cantando bene se riesci a sentire la voce di chi ti è a sinistra e di chi ti è a destra. Credo sia la forma di massimo rispetto in tutte le discipline, anche sul set.
Invece la voglia di recitare che spazio ha occupato?
Tra i sedici e i diciotto anni ho vissuto un periodo particolare, ero molto focalizzata su tutta ’sta roba dell’attrice. Avevo perso di vista il resto, avevo una diligenza esagerata in cui non mi riconoscevo. Ero sempre sul pezzo, a studiare, a fare provini, un workshop dietro l’altro. Ma facevo tanti provini e non venivo presa, credevo di non essere abbastanza e allora strafacevo. Però così ti perdi tutto: uscire con gli amici, bere una birra, le relazioni, il fidanzatino, tutte quelle cose che formano la persona.
Come nella scena in cui Beatrice è a un pranzo con il padre: Thomas le scrive “Devo venire a salvarti?” e si presenta con due caschi. Tutto facile, tutto adrenalinico, tutto impulso che poi si perde negli anni.
Sì, quanto è vero. Quell’istinto, quel fare sempre le cose di pancia credo mi servirebbe lavorare per tenermelo stretto, perché più cresco e più rifletto prima di dire le cose e di rispondere. Ma io alla fine sono una che dice tutto e subito, e combina anche dei guai. Quella pancia bisognerebbe conservarla, dovremmo un po’ dimenticarci come bisogna comportarsi nelle dinamiche sociali. L’altro giorno mi è caduto il caffè addosso e d’istinto mi è uscito di dire: “Maro’, mannacc’ ’a miseria“. Questa cosa ha provocato il riso nelle altre persone e io mi sono interrogata: perché fa ridere? Perché è un lampo di impulsività nel mondo adulto?
Ci credi nell’impatto del teen drama sul pubblico?
Io credo che il teen sia fondamentale, per non sentirsi soli e per sentirsi parte di qualcosa che è più grande di noi. I commenti del pubblico sono l’unico riscontro effettivo per un interprete, le persone che ti fermano per strada ti raccontano qualcosa di loro. Si rivedono, trovano aggancio in qualcun altro che ha vissuto qualcosa di simile, anche se nella finzione. Con Mental ci sono arrivati alcuni messaggi così forti che ho pensato: cazzo, allora forse veramente serve meno terapia e c’è più bisogno di questo. Che poi cos’era la catarsi greca, se non una forma terapeutica? La gente andava a teatro per stare meglio. Osservare, ritrovarsi e curarsi attraverso la condivisione con l’altro.
Con Mare fuori questo rispecchiarsi è diventato piuttosto ossessivo.
Ricordo che una volta stavo camminando per i Quartieri Spagnoli e una bambina piccolissima, avrà avuto sei anni, sganciò la mano dalla madre e corse verso di me. Si aggrappò al ginocchio e disse: “Nina! Ma allora tu non si’ muort’!”. Là mi ha fatto veramente strano. Ma che sta succedendo? È quasi malsano, forse, ma fa anche capire che per il pubblico, in quel momento, quello che sta vedendo diventa quasi reale.
Se ti rincuora, dopo quindici anni ancora piangiamo una narcisista tossicodipendente come Marissa Cooper.
(Ride) Dici che so’ la Marissa Cooper di Napoli?
A kind of. Ma i tuoi teen di riferimento quali sono stati?
Mio fratello è più grande di me e monopolizzava l’unica televisione che avevamo in casa. Quindi, sicuramente anche per me The O.C., Dawson’s Creek, Friends, Gossip Girl. C’erano ancora le repliche su Italia 1 dopo pranzo, quando tornavi da scuola e non te le potevi perdere. Poi vabbè, inevitabilmente ho avuto anche il momento argentino. Altro discorso per Skins e Fringe, che avrò rivisto almeno tre volte, e lì iniziava ad alzarsi il livello.
La forza di Shake quale potrebbe essere, in questo senso?
A me ha incuriosito subito il confronto diretto con Giulia Gandini, una regista che ha meno di trent’anni. È un incontro abbastanza raro, in questo mestiere. Credo che il risultato si sia percepito sul set quanto nella serie, perché il linguaggio di Giulia è ancora molto vicino al nostro, e le dinamiche dei personaggi che racconta non erano poi così lontane nel suo passato.
Tra Mare fuori, Mental e Shake, sei tra i protagonisti di un cambiamento lento ma storico nel contenitore Rai. Sei troppo giovane per avvertire il passaggio da una vecchia Rai a quella in cui stai lavorando?
No, sicuramente lo percepisco anch’io. Ho iniziato a fare provini a quattordici anni, mentre ne avevo otto quando ho fatto il primissimo lavoro estemporaneo in Rai, Ho sposato uno sbirro, con la regia di Carmine Elia. Il cambiamento io lo noto nel pubblico: fino a qualche tempo fa guardare Rai 1 o Rai 2 era qualcosa che associavamo ai genitori e ai nonni. Oggi è diverso, e forse per me L’amica geniale è stato un punto di svolta, con tutto il suo alone di mistero. Naturalmente le vesti di Mamma Rai rimangono, basti pensare alle scene di nudo integrale o di stupro tagliate dalla serie rispetto alla HBO, ma è comunque un tv statale.
Che comunque offre ancora un servizio anche a chi è nato negli anni Quaranta del secolo scorso.
Esatto. E non credo sia giusto pretendere che offra gli stessi identici contenuti di Netflix, Prime o HBO. Però il cambiamento c’è, e ne parlo sia da interprete che da spettatrice, perché in questo caso ricopro due ruoli. Poi ormai su RaiPlay è tutto riproducibile e si può scegliere: facile, no?
Il successo di Mare fuori come te lo sei spiegato?
Mare fuori ha fatto il botto andando su Netflix, è vero, ma io ho sempre vissuto a Napoli e noi lì sentivamo che qualcosa stava succedendo da prima. Per strada iniziavano già a fermarci e chiederci foto, ma era tutto ancora limitato al nostro territorio. Sai cosa mi è successo dopo? Che parlando con i miei coetanei tutti iniziavano a dire: “Bellissimo Mare fuori. Mia madre e mia zia già se l’erano visto, mentre io non l’avevo mai preso in considerazione”. Perché? Perché era qualcosa che passava su Rai 2 alle 21:10, ed è la prova di come l’abito faccia il monaco. A volte, dal momento in cui cambia il mezzo di fruizione, è come se cambiasse il contenuto stesso. È successo anche alla Casa di carta. Certe serie vengono rilanciate, prendono il volo, diventano un fenomeno mediatico che può perfino superare il contenuto in sé, e tu ti chiedi: “Ok, se analizzo tutto questo, cosa significa?”
Dimmelo tu: cosa significa?
Che è diventato un contenuto potente anche perché universale, alla portata di tutti. Conosco moltissime persone che hanno guardato Mare fuori per parlarne, come nel caso di Squid Game. Perché a un certo punto devi partecipare al fenomeno per non restare fuori da quella bolla e quindi, in qualche modo, fuori dal mondo.
Invece il non-successo di Mental?
Sono molto d’accordo con te sul definirlo un non-successo. So solo che chiunque ha visto Mental è rimasto sinceramente colpito dal prodotto, e io per prima mi commuovo come se non fossi tra gli interpreti. Ecco, in questo caso c’è un contenuto molto forte che però non ha avuto una risonanza alla sua altezza. Io tutt’oggi dico che è stata l’esperienza più bella e formativa che abbia fatto finora. Michele Vannucci è stato in grado di creare qualcosa di irripetibile per noi. È raro che io leghi sui set, faccio molta selezione, ho il mio giro di amici quasi tutti napoletani che mi porto dietro dall’infanzia. Giudico molto. Ho tanti pregiudizi. Quando riescono a smontarli e a farmi ricredere sono felice. E su Mental è successo qualcosa, perché Romano (Reggiani, nda), Federica (Pagliaroli) ed Elena (Falvella Capodaglio) sono persone con cui ormai ho dei rapporti quotidiani, sono i miei punti di riferimento a Roma. Questo è anche merito di Michele, che ha toccato la questione delle patologie psichiatriche facendoci avvicinare in punta di piedi, mettendoci in contatto con le esperienze dirette di persone reali. Ci ha allineati tutti su una sensibilità che è anche la sua.
In Shake c’è uno scambio di battute tra genitori: “Tua figlia è una tipa intelligente”, “Però le persone intelligenti soffrono di più”, “No, le persone libere soffrono di più”. Secondo te?
Porca miseria. Però io credo che le persone libere siano le persone intelligenti.
Però le persone intelligenti diventano spesso schiave di se stesse. Vanno in overthinking.
E anche tu hai ragione. Allora ti racconto quello che mi ha detto una persona qualche anno fa. Io leggo tantissimo, però compro dieci libri e ne leggo otto contemporaneamente, e questa persona mi fa: “Gre’, tu pensi troppo”. Così, semplice, un commento arrivato da una persona con cui avevo una relazione che non capivo bene che cazzo era, se un’amicizia o qualcosa di più, e me lo chiedevo, e glielo chiedevo, e mi rispondeva: “Tu pensi troppo, ma che te ne frega di quello che siamo o che potremmo essere?”. Forse sembra banale, ma per me è stato rivelatore. Se nessuno te lo dice, magari non te ne accorgi che stai cadendo nel pensiero del pensiero del pensiero. Nel tranello di te stessa.
Alla prima di Mixed by Erry ti sei presentata con un bomberino alla Liberato e la scritta “Forza Napoli”, styled by you. Parliamo degli effetti dell’incontro con Sibilia sul tuo campanilismo?
(Ride) È stato tutto meraviglioso. Sono andata a fare i provini e ho detto a Francesca Borromeo (casting director, nda): “Senti, non me ne frega niente, io questo film lo voglio troppo fare”. Continuavano a farmi fare un provino dietro l’altro, e sempre con un Erry diverso. Non mi dicevano che in cuor loro mi avevano già scelta. Io sono di Forcella, centro storico, e Mixed by Erry per i miei genitori è stato qualcosa di molto concreto, ovviamente conservano ancora le cassette. Ero elettrizzata all’idea di essere una voce in quel ritratto di una Napoli autentica che non ho vissuto, e che non so se un giorno tornerà, ci credo poco. Eppure sento che c’è un ritorno tangibile in questo periodo, ed è incredibile che tutto coincida: il calcio, il cinema, il turismo, la cultura. Sai, al di là di tutte quelle puttanate che sono state dette sulla pirateria, la cosa fondamentale di Mixed by Erry è la capacità di descrivere l’inventiva dei napoletani. La cosiddetta arte dell’arrangiarsi, che qui abbiamo sviluppato in maniera particolare. Avere tutto anche se non si ha niente, è tipicamente nostro. Non è un caso che per il pubblico io sia Nina di Mare fuori ma con Mixed by Erry qualcosa stia cambiando, perché è un film che la gente sta guardando grazie al passaparola.
Dopo Qui rido io di Martone, è arrivato anche Delta. Diretta di nuovo da Vannucci, accanto a Lo Cascio e Borghi nel racconto del conflitto tra uomo e natura: è la conferma che il Signor Cinema Impegnato ti ha dato il benvenuto?
Quando mi chiedono di Delta per me è molto complicato parlarne, dire qualcosa che abbia senso. Avevo diciannove anni, ne ho compiuti venti durante la lavorazione sul set. Dopo Mental Michele mi portò sul fiume, e pensa che il mio personaggio da sceneggiatura era un ragazzo. Siamo stati lì tre mesi, uno di preparazione e due di lavorazione. Sono andata a pesca, ho imparato a portare la barca, andavo al mercato a vendere il pesce, ho vissuto con dei pescatori che mi hanno accolto in casa loro. Sono andata in un allevamento di siluri e ho puzzato di gelatina di siluro per settimane. Un giorno ero su un argine con Gigi (Lo Cascio, nda) e abbiamo incontrato un pescatore, era uno dei più anziani del delta del Po. Ci dice: “Io vengo qui, mi siedo e ascolto”. “Ma cosa ascolti, che non c’è niente?”. Lui mi risponde: “Il silenzio”. Porca miseria. A un certo punto ho dimenticato di dover fare un film, l’esperienza umana ha superato perfino quella lavorativa, e credo che questo mi abbia aiutato a non entrare troppo in ansia all’idea che stavo facendo un film con Luigi Lo Cascio e Alessandro Borghi, a non pensarla come l’occasione della mia carriera. Perché ok, stiamo girando un film del genere, ma stamattina quello mi ha detto che ascolta il silenzio, ma di che stiamo parlando?
Sempre di cose che sanno d’amore, direi.
Sì, e questo tipo di amore per me conta tutto. Io volevo tornare lì. Ho legato con persone di sessant’anni, sono tornata a trovarli e loro sono venuti da me a Napoli. Mi sono scoperta e conosciuta grazie ad altre persone, e quando succede torni a casa e riesci solo a pensare: cazzo però, che bello se fosse sempre così.
Al netto di tutto quello che sta arrivando: “quella” morte ti ha portato fortuna oppure hai dei rimpianti?
No, nessun rimpianto. Se sei impegnato su una serie e sei in prima chiamata, per motivi logistici devi dire no ad altre cose. Credo che il ciclo di Nina in Mare fuori sia stato giusto così. Mi piace pensare che sia morta per amore, il più grande sentimento che dovrebbe muovere le nostre azioni. E poi mi piace anche che la gente mi pianga… un po’ alla Marissa Cooper (ride).