Pronti, ai posti, via: il 19 novembre, su discovery+, è arrivata la prima edizione italiana di RuPaul’s Drag Race, il fenomeno di costume internazionale creato dal genio di RuPaul nel 2009. Dalla prima puntata del reality show che vede competere tra loro agguerritissime drag queen, andata in onda su un canale di nicchia – Logo TV – per poi passare su VH1, di acqua sotto i ponti n’è passata parecchia. E per parecchia intendiamo: 13 anni, 21 stagioni condotte dalla titolare della serie, 13 edizioni americane e 8 internazionali, oltre 300 concorrenti; 19 Emmy Awards vinti; la creazione, laddove prima una reale industria del drag non esisteva, di carriere a volte milionarie alimentate da discografie, convention di settore, serie televisive, merchandising, linee di cosmetici; un incalcolabile indotto di programmi e canali YouTube, Instagram e quant’altro; un circuito mondiale di intrattenimento dal vivo pensato per soddisfare la crescente fame di drag del pubblico. Su RuPaul’s Drag Race c’è tanta di quella roba da dire che andrebbe scritto un libro, e Tom Fitzgerald e Lorenzo Marquez l’hanno fatto. RuPaul e le altre – appena uscito per Vallardi, prefazione e traduzione di Matteo Colombo – è una specie di Bibbia per qualsiasi profano s’affacci per la prima volta all’universo del programma televisivo più queer di sempre, Bibbia che ci ha per altro aiutato a redigere questa specie di “guida galattica” per i novelli Drag Race-isti. Non per peccare di maniavantismo, ma si tratta solo delle basi: se qualcuno vi dovesse mai accusare d’essere shady, almeno saprete di che sta parlando.
La Werk Room e l’arte del drag
Chiamatela come volete – il laboratorio di Drag Race, il tempio o il Senato del drag –, la Werk Room rappresenta il cuore pulsante del programma, dove le queen creano i propri costumi, lavorano su trucco e parrucco e si preparano per le sfide principali. È, insomma, lo spazio attorno al quale ruota la vita delle concorrenti. Qui vediamo «le varie drag queen in boy drag, come a dire travestite da maschi. (…) C’è stata un’epoca in cui l’idea che una drag queen si facesse riprendere in abiti civili era considerata grave quanto l’idea che un mago che rivelasse i suoi trucchi. Ma smantellare il travestimento serve a centrare lo scopo del programma, che è quello di mostrare l’arte del drag in tutte le sue parti, impossibili da apprezzare se non si assiste alla trasformazione. Inoltre, è un modo per rimuovere barriere o difese emotive. Ru sa perfettamente che il drag può essere una forma di difesa, e che nella Werk Room quel meccanismo di difesa viene smontato sfilando alle queen la stampella delle parrucche e dei corsetti».
You Better Werk, bitch
La tendenza ad alzare la voce e provocare, vincendo la paura, sta alla base del coraggio queer, e quindi del drag: «Lo scontro è una componente fondamentale, che si tratti di aggredire le proprie paure, le convenzioni sessuali, i detrattori o chiunque ostacoli il proprio cammino». I litigi delle queen nella Werk Room, nonché l’atto stesso di segnare il territorio massacrandosi a parole, affondano le radici nei moti di Stonewall del 1969, quando le regine Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera gridarono tutta la loro furia rivendicando i propri diritti civili. E a Drag Race, «conoscendo perfettamente la storia di guerriere come Marsha e Sylvia, usano da sempre il drag come metafora della forza individuale e strumento di autodeterminazione».
Shade, reading e lingue biforcute
La mini-sfida del reading – «l’arte del giudicare gli altri insultandoli con ironia» – è da sempre uno dei momenti più apprezzati di RuPaul’s Drag Race: se qui il read serve a segnare punti, ridimensionare una queen, ottenere più inquadrature, procacciarsi più date o farsi due risate, le sue origini sono ben più antiche. «Per le drag e le persone queer, la capacità di shade e di reading è da sempre una tecnica di sopravvivenza: una queen che voglia davvero arrivare in cima e diventare famosa non può farcela, se non sa usare la lingua come un rasoio». Per usare le parole di Ru, «noi drag ci facciamo scivolare addosso un sacco di insulti, ed è per questo che, quando ci capita di insultare, trasformiamo l’insulto in arte. Lo chiamiamo reading o throwing shade, che significa gettare ombra, infangare, e fa parte della nostra cultura». Il reading consiste nell’individuare i difetti di una persona e ingigantirli, come spiega la leggendaria Dorian Corey nel documentario di Jennie Livingston Paris Is Burning: «Shade è… non dirti che sei brutta, ma non dovertelo dire perché sai di esserlo».
Come on, vogue
Accantonate per un attimo Madonna, perché «il voguing viene dalle ballroom, nasce da uno stile di ballo messo a punto da gente queer nera e latino-americana allo scopo non solo di esprimersi, ma anche di lottare per il predominio e riaffermare il proprio posto nel mondo». Così chiamato in onore della rivista Vogue, è una forma di shade fisico, «una danza tra persone che non si piacciono», come lo definiva Willi Ninja – il padrino, o forse meglio dire il nonno del voguing – sempre in Paris Is Burning.
Siamo seri, ma non troppo: lo Snatch Game
Questa parodia del quiz televisivo anni ’70 Match Game è uno dei passaggi più difficili della gara di Drag Race, in cui, come dice Ru, si stabilisce «chi è in gara e chi finisce nell’umido». «Si tratta inoltre di una sfida in cui le queen devono mostrare prontezza di riflessi, avere la battuta pronta, presentare un personaggio riconoscibile e perfettamente formato e riuscire a sfruttare il caos che hanno intorno». Lo Snatch Game è molto più di un semplice scimmiottamento: occorre conoscere a menadito la cultura pop, imprimere al soggetto ritratto una comicità che risulti credibile e (soprattutto) far ridere Ru. L’imitazione delle dive è d’altronde una forma di drag molto antica, con una lunga tradizione e artisti leggendari a cui tenere testa: per le concorrenti, prendere parte alla sfida «significa anche rendere omaggio a un tipo di drag che nel Ventesimo secolo contribuì enormemente all’affermazione degli artisti e dello spettacolo queer presso il grande pubblico americano». Insomma, con lo Snatch Game non si scherza un cazzo.
Perché drag?
La leggenda vuole che la parola «drag» sia l’acronimo dell’indicazione che Shakespeare dava ai suoi attori: «Dress resembling a girl» (vestitevi da femmine), ma tale evidenza non è dimostrata. Più comunemente, si crede che il termine «sia un riferimento ironico al fatto che, nelle produzioni ed epoche storiche in cui alle donne era vietato recitare, gli attori trascinassero (to drag) in lungo e in largo per il palcoscenico le lunghe gonne dei ruoli femminili classici». Questa spiegazione risulta più interessante perché sottintende il punto di vista di un attore eterosessuale: nessuna drag queen trascinerebbe mai la gonna su un palco, perché sarebbe entusiasta di indossarla, oltre che abituata a manovrarla con destrezza. «Ci piace pensare che gli attori eterosessuali si lamentassero di dover trascinare le gonne, che quelli queer lo trovassero divertente, e che col tempo il termine drag abbia finito per essere applicato a una pratica specificamente queer».
Doverosa parentesi storica: Divine
«La gente ama ridere del sesso, di ciò che è disgustoso, e ama essere scioccata. Il mio compito è quello: andare lì e scioccarla». Non ci sarebbe Drag Race, forse non ci sarebbe nemmeno RuPaul, se non ci fosse stata Divine, ossia Harris Glenn Milstead, la prima drag queen a conquistare la notorietà di massa. Corpulento e vittima di bullismo sin dall’infanzia, Milstead condensò la sua rabbia in un personaggio splendido e inquietante, e trovò il suo maestro nel pioniere del cinema trash John Waters, che a sua volta la elesse a musa. Divine «spostava il drag dalla matrice hollywoodiana e dalla bellezza convenzionale verso un’estetica underground di ispirazione punk e un glamour molto più aggressivo. (…) Era spaventosa, sexy e camp. Usava il drag per fare terrorismo culturale, conciandosi in modo che la gente fosse costretta a guardarla». Ru l’ha definita «la prima superstar del drag», ma è stato John Waters a riassumerla meglio di chiunque altro: «Divine incarnava tutti gli outsider».
Oooh, Pit Creeeewwwww!
Bastano tre parole magiche pronunciate da Ru a mandare in visibilio le queen e il pubblico da casa: di lì a poco la porta della Werk Room s’aprirà, e ne uscirà un gruppetto di uomini muscolosi e seminudi. «La Pit Crew è uno degli aspetti più sovversivi di Drag Race, quello che più orgogliosamente espone gli archetipi erotici del maschio omosessuale. Con i muscoli lucidi e il pacco in evidenza, i ragazzi della Pit Crew offrono il loro corpo agli sguardi o come oggetto di scena, senza mai parlare né fare nulla che non sia richiesto. Rappresentano una satira del consolidato ideale di perfezione fisica gay: definita, luccicante, discinta e muta». E se le queen il pacco lo devono nascondere, altri devono mostrarlo: «La tensione tra questi poli visivi (e metaforici) pervade la storia del drag. (…) Il bel ragazzo in mutande, per l’immaginario erotico del maschio gay, è emblematico quanto la modella in bikini lo è per il maschio eterosessuale, e in buona parte per le stesse ragioni: perché entrambe sono immagini che mostrano il corpo nascondendone le parti su cui un tempo le leggi sull’oscenità avevano obiezioni».
Altra parentesi: la ball culture
Alla fine degli anni ’80, Jennie Livingston decise di immortalare la sfacciata e struggente vitalità delle ballroom di Harlem sconvolte dal virus HIV, abbattutosi su una popolazione già martoriata da delinquenza, povertà e consumo di crack. Il documentario che ne derivò, Paris Is Burning, è diventato per il pubblico generalista la definizione stessa di ball culture, arrivando a ispirare la serie tv Pose, creata da Ryan Murphy. Inizialmente, questi “balli in costume” gay – una delle tradizioni sociali LGBTQ+ più antiche, le cui origini risalgono alla seconda metà dell’Ottocento – erano organizzati da omosessuali bianchi, che per i primi cinquant’anni ne rimasero i principali responsabili. Si trattava di una celebrazione dell’avvenenza bianca, ed «è per questo che Crystal LaBeija (queen afroamericana, nda) abbandonò il palco del concorso Miss All-American Camp nel 1967: perché a suo avviso i giudici favorivano le concorrenti bianche. Fu quell’atto di ribellione che la portò a fondare la prima house della storia, strappando definitivamente i ball a qualsiasi comunità non fosse quella queer di colore».
Lip Sync for Your Life
Obiettivo dell’ormai leggendario duello che chiude le puntate di Drag Race: abbandonarsi completamente all’artificio, mantenendo un’assoluta credibilità. «Il lip-sync è il non plus ultra del drag proprio perché del drag rappresenta l’essenza: creare arte e bellezza attraverso l’illusione. (…) I lip-sync realmente magistrali sono quelli di chi riesce a rielaborare la carica emotiva di un pezzo filtrandola attraverso il proprio personaggio e le proprie esperienze, punteggiando il tutto di virtuosismi esagerati che scandiscono l’esibizione come i gesti di un direttore d’orchestra e manipolando con sapienza le emozioni e le aspettative di chi guarda. È una specie di remix che non interviene sui suoni». Nota a margine: riguardatevi il film di Stephan Elliott del 1994 Priscilla – La regina del deserto: è quello lo spartiacque culturale che fece scoprire al grande pubblico i vertici qualitativi del lip-sync drag come mai prima di allora.
I tormentoni
Il trittico delle convinzioni di RuPaul sulla capacità del drag di trasformare e rafforzare l’individuo: «La famiglia noi ce la scegliamo»; «Se non amiamo noi stessi, come possiamo amare?»; «Nasciamo nudi, tutto il resto è drag». E un gran finale: «Le grandi drag queen, come le rockstar, vivono di eccessi».