Ci sono Rhaenyra, Rhaenys e Rhaena, un numero indefinito di Aegon, Daemon che è l’anagramma (del mio nome, pardon) di Aemond (e ci torniamo), Jaehaerys e Jaehaera, Jacaerys e Lucerys: “Tutti biondi coi nomi tutti uguali”, come mi scriveva un collega, che si affaccia per la prima volta alla origin story di casa Targaryen. E anche se House of the Dragon (su Sky Atlantic e in streaming in esclusiva su NOW) è più la mia cup of tea, capisco la perplessità. Nelle ultime due settimane i miei feed social sono invasi da post di alberi genealogici valyriani per aiutare il pubblico a capire chi-è-chi, spiegoni su come distinguere un drago dall’altro, reel che attaccano con “sapevi che nei libri?”. Un caso?! Non credo. Nella seconda puntata della seconda stagione, c’è la prova definitiva del kink di George R.R. Martin per i nomi: Erryk e Arryk (sì, si pronunciano entrambi “Eric”) Cargyll, gemelli identici divisi dalla scelta di rimanere fedeli alle due diverse fazioni – rispettivamente: Neri e Verdi – che si affrontano mortalmente a Roccia del Drago, dove il secondo era stato mandato a uccidere Rhaenyra. “Quale dei due è Erryk?”, chiede Ser Lorent chiamato in soccorso da un’ancella. E Rhaenyra lo guarda confusa (inserire meme John Travolta) come tutto il pubblico. C’è chi ha scritto che caos non significa complessità. E in parte può anche aver ragione.
Il problema principale di House of the Dragon però è che viene costantemente (e anche comprensibilmente, eh) paragonata alla serie originale, Game of Thrones, che però era frutto di un equilibrio miracoloso tra la grandeur della storia e l’umanità (e quindi la complessità, qui sì) dei suoi personaggi, complice anche un budget ridotto sulle primissime. Ecco, quella magia quasi naturale, effortless, HOTD non ce l’ha, è tutto più costruito, ma non per questo costruito meno bene. Lo stesso vale per la portata epica, che al momento è quasi totale appannaggio dei draghi, che non deludono. Per il resto la serie è un family feud in piena regola, una sorta di Succession fantasy (a proposito, mi è venuta in mente una battuta di Logan Roy: “I need a firebreather. A ruthless f–k who will do whatever it takes”, LOL).
L’inizio della seconda stagione brucia lentamente per poi accelerare con la scena madre, un po’ spy story, parecchio revenge movie, un po’ political thriller: Rhaenyra cerca disperatamente le spoglia del figlio Luke, falciato da Aemond e dal suo drago Vhagar. Le trova, strazio, torna a casa e tuona al suo Consiglio: “Voglio Aemond Targaryen” (meglio precisare con il cognome, che non si sa mai). Nemmeno il tempo di dirlo che Daemon ordina a Blood (un ex membro della Guardia Cittadina di Approdo del Re) e Cheese (un cattura topi che conosce la Fortezza Rossa come le sue tasche) di uccidere Aemond. Peccato che a finire decapitato sarà il piccolo Jaehaerys, figlio di re Aegon II e della regina, sorella e moglie (sì, sono Targaryen) Helena: “Un figlio per un figlio”. È solo la prima, inaspettata morte in stile GoT. Da qui non si torna più indietro. “Piangeremo come si conviene, ma quest’evento può comunque portare vantaggi”, parola di Otto Hightower, in pieno mood loganroyano. Segue funerale (pare ispirato a quello di Lady Diana) strappacuore, con Alicent e Helena al seguito del feretro e araldo che grida: “Guardate l’opera di Rhaenyra, sterminatrice di bambini”.
Insomma, la Danza dei Draghi è appena cominciata. Nella prima stagione ad ancorare tutto c’erano due figure femminili, la stessa Rhaenyra Targaryen e Alicent Hightower, e la loro sottilissima dinamica di nemiche/amiche à la Gossip Girl: chapeau a Emma D’Arcy (nella prima puntata regge primi piani tosti e pronuncia quattro parole in tutto) nei panni della Serena di Westeros, biondissima e amatissima, “la delizia del regno” nominata dal padre Viserys come sua erede e futura regina, dall’altra parte c’è Olivia Cooke aka Blair, che la posizione privilegiata se l’è in qualche modo guadagnata (notare pure la somiglianza con Miss Waldorf avec un non so che di Disgusto direttamente da Inside Out). Ma this is a man’s world, e a prepararsi a emergere nei nuovi episodi è un altro antagonismo: Daemon vs. Aemond, una rivalità tra secondi figli, quelli con la vera big dragon energy (pardon) che re non diventeranno mai (al massimo principi consorti) eppure sono villain (se così possiamo chiamarli, visto che HOTD non si basa esattamente su una visione manichea) strepitosi e brutalissimi.
Che fin dall’inizio il Daemon di Matt Smith fosse la established star dello show non è certo un segreto. Impetuoso e per questo un pericolo ambulante per la fazione dei Neri, terribilmente umano anche nei suoi lati più oscuri, imprevedibile, sfuggente ma forse proprio per questo supercool e, in fondo, capace di tutto per Rhaenyra (nipote e seconda moglie: di nuovo, Targaryen); c’è una certa arroganza del suo principe Filippo di The Crown, ma anche la weirdness (vedere il terzo episodio per credere) e l’audacia di Doctor Who. Per il momento però il drago d’oro (pardon) come miglior personaggio va a Aemond, meraviglioso principe pirata con mommy issues, che frequenta ancora il bordello in cui è stato iniziato al – ehm – mondo da una prostituta più grande, ma spesso solo per stare sdraiato abbracciato a lei in posizione fetale tipo Voldemort e ammettere che è “pentito di com’è andata con Luke”, che ha “perso la calma”. Eppure è il guerriero più forte e spietato della fazione dei Verdi e cavalca il drago più grande e temibile, Vhagar, che gli è costato (letteralmente) un occhio. Ewan Mitchell (già visto anche in Saltburn, era lo studente secchione di matematica) pare nato per interpretare Aemond, ha una presenza fisica e un carisma impressionanti: con quei capelli come lui forse solo Orlando Bloom, mai più tanto figo quanto lo è stato nei panni di Legolas.
Altre considerazioni in ordine sparso dopo la visione delle prime quattro puntate: Jace (Harry Collett) va a chiedere aiuto a Cregan Stark (Tom Taylor) alla Barriera ed è subito glow up versione Jon Snow; se pensavate che non avreste mai odiato un altro personaggio quanto Joffrey Baratheon, aspettate di vedere Ser Criston Cole (Fabien Frankel è stato costretto a limitare i commenti su Instagram per proteggersi dagli insulti dei fan); bellissimi i nuovi titoli di testa ispirati all’arazzo di Bayeux, che ricamano una scia di sangue ad attraversare i momenti-chiave della storia dei Targaryen, dalla distruzione di Valyria alla Danza dei Draghi, sempre sul brano-tema della saga rielaborato dal compositore Ramin Djawad. C’è anche la scena in cui i Lord decisero di incoronare il maggiore dei nipoti maschi di re Jaehaerys, Viserys, al posto della nipote primogenita Rhaenys, “la regina che non fu” (meravigliosamente interpretata da Eve Best), la guerriera d’acciaio sempre pronta alla battaglia con il suo drago Meleys, unsung hero della storia che ha alcune delle battute e delle scene (pazientate per credere) più belle di House of the Dragon: “Gli uomini preferirebbero dar fuoco al reame, pur di non vedere una donna sul Trono di Spade”, diceva nella prima stagione. E qui prima blasta Daemon, che le ordina di volare con lui: “Potresti farlo se fossi il re” (sbam); e poi raddoppia: “Quando il desiderio di uccidere e bruciare avrà la meglio, la ragione svanirà. Non rammenteremo nemmeno perché la guerra è cominciata”. Intanto però preparate i popcorn, e pure i fazzoletti. È pur sempre uno spin-off di Game of Thrones, no?