Quando lo scorso settembre ho letto l’annuncio ufficiale, ammetto di aver tirato un sospiro di sollievo: per fortuna BoJack Horseman finisce adesso, mi sono detto. Prima di allungare il brodo e trascinare una delle serie più importanti di sempre fuori dalla sua aura di sacralità, a un livello anche solo leggermente inferiore agli standard a cui ci ha abituati, meglio mettere un punto e chiuderla qui. Ma poi ho cominciato a vedere la seconda parte di questa sesta e ultima stagione, che arriva su Netflix il prossimo 31 gennaio, dopo la prima uscita a ottobre, e ho capito che no: non siamo pronti a dire addio a BoJack. Stavolta vincono i sentimenti, a maggior ragione davanti a un finale così sfumato e pieno di speranza.
Il punto non è quanto la creatura di Raphael Bob-Waksberg abbia rivoluzionato l’estetica delle serie tv (e cioè: tantissimo e per sempre), ma il modo in cui ci abbia toccati dentro e sia cresciuta con noi. Partita come satira dello showbiz made in USA, attraverso un mondo antropomorfo – che è giusto uno dei tanti boost che l’essere un prodotto di animazione le ha offerto – col tempo l’opera è diventata un qualcosa di molto più grande, aperta a quei toni drammatici che, insieme a divagazioni d’autore e intuizioni geniali, l’hanno condotta nell’Olimpo.
Lo stesso BoJack, all’inizio solo un cavallo-attore narciso e alcolizzato, prigioniero di quando-era-famoso, ha svelato tratti complessi e sorprendenti per uno show del genere: depresso, autodistruttivo e autoindulgente, tossicodipendente, restio a prendersi le proprie responsabilità e con carenze affettive derivanti da un’infanzia drammatica. E se il protagonista (in cui dovremmo pure immedesimarci) è, come gli si rinfaccia fino all’ultimo, uno “stupido pezzo di merda”, in un mix intricato di fragilità e infamità, gli altri intorno a lui mostrano che non esiste margine fra “buoni” e “cattivi”: dall’entusiasmo di plastica della “nemesi” Mr Peanutbutter ai vuoti cronici della scrittrice Diane, passando per l’eterna adolescenza di Todd (primo personaggio asessuale di una sit-com, hai detto niente) e la vita immolata alla carriera di Princess Carolyn. Tutti volti che abbiamo imparato a conoscere a memoria, ma che nel corso delle stagioni sono cambiati (si sono allontanati e riavvicinati fra loro, si sono innamorati e lasciati), contribuendo alla caratura rivoluzionaria e profonda della serie. Insomma: se avevamo I Simpson, adesso c’è BoJack. Con meno satira, e molte più nevrosi e incertezze.
La svolta è arrivata intorno alla quarta stagione, quando accanto alla storia principale sono sbocciate – appunto – quelle dei comprimari, trasformando l’opera in un trattato generale su depressione, insoddisfazione e ricerca della felicità. La prima animata, è vero, ma soprattutto l’unica in grado di parlarne senza retorica, con atmosfere un attimo prima demenziali nei confronti di Hollywood (fra perfezionismo da social e #MeToo) e subito dopo intime e nerissime. Così, coi personaggi sempre a un passo dalla serenità salvo mandare tutto all’aria all’ultimo ogni volta, quella che doveva essere una sfilata di attori falliti, creativi disperati e produttori voltafaccia è diventata qualcosa di emotivamente devastante, perché parla di noi. Il resto l’hanno fatto i dialoghi esistenzialisti e brillanti, i colpi di scena da lacrimoni, gli “show nello show” con tante chiavi di lettura, uno studio approfondito e una caratterizzazione maniacale dei protagonisti che ti fa sentire dentro una seduta psicanalitica, e degli episodi (come quello in stile monologo della scorsa stagione) che hanno alzato l’asticella della sperimentazione a livelli quasi impossibili da bissare.
Tutti elementi, questi, che ovviamente non mancano neanche in questa sesta stagione, che come da copione bilancia equivoci, gag “fisiche” e divagazioni d’autore e più sperimentali, tipo nel caso della puntata bellissima e ansiogena in cui Princess Carolyn deve “moltiplicarsi” per far collimare la nuova vita da mamma con la carriera desolante di agente: una perla.
Ma il punto, stavolta, è che il filo di malinconia che unisce il tutto non è mai stato così spesso. Perché se il primo blocco di otto episodi, uscito a ottobre, era quasi un teaser di questa seconda parte, ora la necessità è chiudere i cerchi d’insoddisfazione lasciati aperti in passato e favoriti in passato dalla trama sempre più corale dello show. L’idea, allora, è mettere i protagonisti in un’intima convalescenza dai passi indietro con cui avevano chiuso la quinta stagione, pronti – si spera, stavolta, per davvero – per una piccola, definitiva svolta verso la serenità.
***Attenzione: da qui iniziano gli spoiler sulla stagione finale***
Ed è secondo questa prospettiva, allora, che Diane rinuncia a Los Angeles per trovare nella semplicità di un matrimonio con un cameraman di nome Guy ciò che la carriera non è riuscita a darle, che Todd ricuce finalmente il rapporto coi genitori, che Mr Peanutbutter scopre un minimo di realismo nelle sue relazioni sentimentali e che Princess Carolyn prova – e forse riesce – a far coesistere maternità, lavoro e un amore che arriva oltre il triplice fischio. Passo dopo passo, con naturalezza, ogni storia risalire alla fonte dei suoi problemi. Se non per risolverli, per entrarci a compromessi.
E poi c’è BoJack, la cui vicenda è giocoforza differente: dopo ricadute e sensi di colpa prova davvero a riscattarsi disintossicandosi e insegnando recitazione, ma il conto delle nefandezze deve arrivare. E lo fa, eccome, sotto le spoglie di un’inchiesta sulle sue responsabilità occulte nella morte di Sarah Lynn, che il protagonista prima ha portato all’overdose e dopo non ha soccorso – ma di cui nessuno sapeva nulla. Come da copione, allora, la situazione precipita: una volta uscito lo scandalo, il Nostro perde la faccia, subisce una shitstorm mediatica, chiude suo malgrado il rapporto con la sorellastra Hollyhock e torna drogarsi, al termine di una notte in cui rinuncia anche ai diritti su Horsin’ Around (un gesto dal valore simbolico, soprattutto) e scopre di essere stato tradito sull’allontanamento dell’ideatore Herb Kazzaz dalla serie, in quello che viene considerato un po’ l’origine di tutti i mali del cavallo. Disperato e strafatto, vive persino un’esperienza estrema di premorte, in una puntata (la penultima) onirica e delirante che in venti minuti tira il bilancio di una vita intera in maniera brillante, spingendosi a un passo dalla scatologia, a un frame dalla fine. Ma non sarà la fine.
Non sarà la fine perché BoJack si salverà proprio all’ultimo, finirà in galera (per violazione di domicilio) e da lì proverà a ripartire, ancora, con più consapevolezza. La felicità, l’accettazione di sé e la certezza di poter diventare persone migliori sono un processo continuo, ci dicono i personaggi; non un punto d’arrivo. E li abbiamo visti fallire talmente tante volte, Princess Carolyn e gli altri, che anche adesso che sembrano aver trovato il loro (precario) posto nel mondo viene il sospetto che potrebbero ripensarci, fare retromarcia e mandare tutto all’aria per l’ennesima volta. Potrebbero tornare le crisi, la depressione, la voglia di sparire. Ma si va avanti, nonostante questo. Va avanti Diane, va avanti BoJack, vanno avanti tutti. E il finale, insomma, non è un “e vissero per sempre felici e contenti”, ma una pacca sulla spalla: ehi, anche dopo sei stagioni di fallimenti c’è ancora speranza, non è mai troppo tardi. E per questo, penso, ci mancherà per sempre.