C’è un inutile film italiano di qualche anno fa (Viva l’Italia, ma non è importante) con uno stratosferico Michele Placido patriarca di una famiglia di smandrappati (ricordo Bova e Angiolini, ma non è importante) che viene colpito da un ictus e inizia a dire tutto quello che gli passa per la testa, urla alle donne per la strada (vado a memoria) che sono delle gnocche, ai figli che sono degli incapaci, e così via. Dice la verità, insomma. Oggi il personaggio di Placido finirebbe a processo per vilipendio della pubblica fragilità, o forse il film non si potrebbe proprio produrre: su Instagram verrebbe giù un casino.
Placido nel film aveva la scusante della malattia, oltre a quella dell’età: non solo “è un povero vecchio”, anche “è un povero vecchio rincoglionito”. Ma nemmeno quella oggi basterebbe. Perciò fa effetto vedere il Sandy Kominsky dell’altrettanto stratosferico Michael Douglas, che non ha avuto nessun ictus, dire tutto quello che vuole (aka, il più delle volte, la verità) nel Metodo Kominsky stagione terza (e ultima, sigh), serie prodotta da un colosso come Netflix che certe cose, oggigiorno, non dovrebbe permetterle mai. E invece, che sollievo: un altro mondo (rispetto allo storytelling corrente) è possibile, persino nel mainstream.
Sandy Kominsky, lo sapete, è un attore fallito che si è riciclato come insegnante à la Strasberg. Ma ai suoi allievi non gliene fotte niente del metodo, della maschera neutra, dell’arte: vogliono solo capire come trovare un buon agente, beccare un ruolo da regular in una serie, sfondare a Hollywood. Sandy ha (aveva) un amico carissimo, Norman, che però è morto (nella finzione: Alan Arkin, che dio l’abbia in gloria, è per fortuna vivissimo) e l’ha lasciato solo con una figlia (Sarah Baker, anche lei stratosferica) pronta a sposarsi con un tizio col codino di poco più giovane del padre (Paul Reiser, sempre stratosferico) e un’ex moglie (Kathleen Turner, metteteci voi l’aggettivo) forse arrivata a dare una mano, o forse no.
Nella terza stagione ancora di più, viene reso evidente il fatto che Sandy insegna nella Hollywood di oggi, dove non c’è più la solidarietà di una volta (così gli dice una studentessa) ma al suo posto c’è la (finta) inclusione, l’accettazione di ogni differenza, e tutto quello che pretende “La Conversazione”. In realtà, tutti si fanno la guerra, l’importante è trovare un buon agente, e un ruolo fisso, eccetera.
L’unico a dire le cose come stanno è, appunto, Sandy. Quando la studentessa che riesce, unica fra tutti, a sfondare ottiene una parte in un medical drama con Morgan Freeman (nel ruolo di sé stesso: per lui l’aggettivo stratosferico non basta), Kominsky scopre com’è cambiato in fretta il mondo: hanno aggiunto un personaggio non binario, dice la ragazza (che è, a sua volta, di origine asiatica), e cercano un vero attore che si faccia chiamare they anche nella vita reale. «Quindi per interpretare Spock avrebbero dovuto prendere un vero vulcaniano», commenta Sandy. Per poi aggiungere: «È una battuta». Sarà anche vecchio, ma ha capito che di questi tempi bisogna sempre spiegare tutto.
Nel Metodo Kominsky non manca il rispetto per il cambiamento in atto nell’industria del cinema (se no Netflix non produrrebbe), ma c’è una cosa del tutto assente nel dibattito corrente: la libertà di riderne. Che poi è ciò che dovrebbe, in ultima istanza, normalizzare (perdonate la brutta parola) le differenze, i cambiamenti, la società tutta. La libertà è concessa solo ai vecchi più o meno rincoglioniti: è un’ottima scusa, da parte dell’ideatore Chuck Lorre (che pure giovanissimo non è), per far passare messaggi che in bocca a gente più giovane non sarebbero mai accettati.
Invece Michael Douglas può sfottere l’ossessione per il gender, e Kathleen Turner può scegliere che fare della sua vita senza curarsi degli altri, e la futura consuocera di entrambi può dire alla di lui figlia che è grassa – quella, che ha trent’anni, ovviamente si offende, e la vecchia replica, vado sempre a memoria: «Ah, è vero che oggi per voi sono queste le vere tragedie, non vi è mica morto un fratello in Corea».
Quindi – questa mi pare la morale di questa serie che non ha mai voluto fare la morale – bisogna solo sperare di diventare vecchi presto: è l’unico modo per poter partecipare ai dibattiti senza timore di finire segnalati dalla polizia delle storie di Instagram. Io vecchissimo mi sento già, rincoglionito lo sto diventando sempre più in fretta, da domani al bar ordinerò solo Jack Daniel’s e Dr. Pepper light, così tutti sapranno come dovranno trattarmi. Cheers.