Quando ha deciso di darsi alla regia cinematografica dopo anni di apprezzatissime pubblicità, Ridley Scott ha infilato, uno dietro l’altro, tre capolavori: I duellanti, Alien e Blade Runner. Una tripletta così non è riuscita quasi a nessuno mai, e per lo stesso Scott è stato l’inizio col botto di una carriera poi altalenante. Ma due di quei tre titoli – Alien e Blade Runner – sono diventati qualcosa di più di “semplici” film, e non solo perché hanno generato vari sequel: hanno cambiato per sempre la fantascienza su schermo (e non solo), incidendo nella nostra memoria collettiva alcuni ipotetici futuri che, ora, in qualche modo, ci appartengono, come se li già avessimo vissuti.
A Scott, ormai è chiaro, interessa soprattutto Alien, visto che negli ultimi anni ci è tornato su già due volte, con Prometheus e con Alien: Covenant, e in lavorazione ha una nuova serie scritta dal papà di Fargo e Legion Noah Hawley (se siete fan della saga, buone notizie: è tra i moltissimi titoli nel catalogo di Star, il nuovo “canale” Disney+ in arrivo sulla piattaforma il 23 febbraio). A Scott interessano tantissimo gli androidi, sì, ma soprattutto quelli che quando si rompono danno fuori di matto (come svariati modelli della Weyland-Yutani di Alien), più che sognare pecore elettriche o crisi esistenziali o rivoluzioni (come quelli della Tyrell Corporation di Blade Runner). Gli interessano ancora di più se si trovano su un pianeta alieno e inospitale, insieme a degli umani prevalentemente stupidi e/o facilmente manipolabili, e tutti quanti insieme possono giocare a fare dio.
Eccoci, dunque, a Raised by Wolves, appena partita su Sky Atlantic, e da più parti strombazzata come “la prima serie di Ridley Scott”. In realtà il nostro, con la sua Scott Free (fondata insieme al compianto fratello Tony) di serie tv ne ha prodotte già diverse, alcune delle quali molto celebri – Numb3rs, ve la ricordate? – o molto belle, anche se sottovalutate – come The Good Wife e il suo sequel The Good Fight; o come la splendida e inquietante The Terror, la cui prima stagione era ambientata tra i crudeli ghiacci dell’Artico, durante una spedizione ottocentesca che scivolava lentamente nella follia, non troppo diversa dalle fantascientifiche colonizzazioni di pianeti della Alien-saga.
Ma Raised by Wolves è in effetti la prima serie di cui Scott, oltre a essere produttore esecutivo, dirige due episodi (e diversi dei successivi li lascia nelle mani del figlio Luke), e soprattutto, tra estetica e temi, sembra farina del suo fantascientifico sacco al 100%: l’ambientazione è un pianeta lontano, solo apparentemente disabitato e dalla natura inospitale; i protagonisti sono una coppia di androidi, Madre e Padre, approdati su Kepler-22b con un piccolo carico di embrioni da trasformare in bimbi e poi crescere come figli per dare vita a una nuova generazione di umani; la Terra che hanno abbandonato era diventata una distopia invivibile, devastata da una guerra continua tra due fazioni, i fanatici religiosi mitraici, adoratori del dio Sole, e gli atei, iper razionali ma inclini allo sfruttamento di bambini soldato; l’idillio di Madre e Padre dura pochissimo, prima perché tutti i bimbi muoiono tranne uno, poi perché Madre sembra, appunto, cominciare a dar fuori di matto, e infine perché un gruppetto di umani – per la maggior parte, come da tradizione, non troppo svegli – li raggiunge e si mette a ficcanasare.
Raised by Wolves è una delle prime serie originali del servizio streaming HBO Max, lanciato la scorsa estate negli Stati Uniti nel pieno di quelle che ormai gli addetti ai lavori chiamano abitualmente “streaming wars”: più che contrastare lo strapotere di Netflix, dovrebbe fare da contraltare a Disney+, dal momento che può contare soprattutto sul ricchissimo catalogo Warner Bros. (da Harry Potter ai blockbuster della DC Comics, e a marzo arriva l’atteso Snyder Cut di Justice League) e sulla celebrata qualità delle serie tv HBO (tra cui, ovviamente, il più grande successo degli anni dieci, Game of Thrones). A crearla e a fare da showrunner non è Ridley Scott, ma Aaron Guzikowski, già autore della sceneggiatura dell’apprezzato Prisoners di Denis Villeneuve e di una poco conosciuta serie con Jason Momoa, The Red Road. Eppure, dicevamo, Raised by Wolves è letteralmente intrisa di questioni scottiane, che siano narrative, filosofiche o stilistiche. Si va dal liquido bianco e lattiginoso che costituisce il “plasma” degli androidi all’ossessione per la maternità, allo stesso tempo salvifica e mostruosa. Su Kepler-22b, è evidente, si aggirano inquietanti presenze orrorifiche, pericolose sia per i fragili umani sia per i quasi indistruttibili androidi. Le questioni religiose, lo scontro tra scienza e fede, le domande sull’esistenza di un’entità superiore che indirizza i destini di tutti sono rese ancora più esplicite dalla battaglia principale attorno a cui è organizzata la trama, quella tra gli androidi atei e gli umani mitraici, dove i primi – soprattutto Madre/Lamia, insieme amorevole e terribile, programmata per proteggere i piccoli ma anche arma potentissima e sanguinaria – sono spesso equiparati alla stregoneria e i secondi si vestono esattamente come i crociati medievali. E, se resistete abbastanza a lungo, tranquilli: a un certo punto comparirà anche una spaventosa e viscida creatura rettiloide, di xenomorfica memoria.
Il paradosso di Raised by Wolves è che, a tutti gli effetti, è una serie derivativa che più derivativa non si può: non c’è davvero nulla che non abbiamo già visto/sentito/letto nella produzione fantascientifica degli ultimi quarant’anni; ma dietro le quinte c’è la stessa persona che sulla produzione fantascientifica degli ultimi quarant’anni ha posto un marchio indelebile, aprendo questioni, seminando simbologie e plasmando un’estetica da cui nessuno ha più potuto prescindere. Per esempio, è praticamente impossibile guardare Raised by Wolves e non pensare alla Battlestar Galactica di Ronald D. Moore, che mescolava l’azione e l’esplorazione dello spazio a sottotesti politici e mistico-religiosi, ma quella serie non era forse, a sua volta, più che mai influenzata da Blade Runner? Idem per Westworld, che in quanto produzione HBO assomiglia a Raised by Wolves pure per stile e valori produttivi, ma che senza la sci-fi scottiana non sarebbe mai esistita. Insomma, Ridley: possiamo accusarti di essere derivativo, se derivi da te stesso? Perfino gli incombenti e affascinanti scenari naturali desertici ricordano quelli di Sopravvissuto – The Martian, solo virati all’azzurro anziché all’arancio (ma, e questo è forse il principale difetto di Raised by Wolves, qui non c’è quasi traccia dell’ironia e della leggerezza del film con Matt Damon).
Il verdetto, naturalmente, sta allo spettatore. Soprattutto nella costruzione del suo mondo e delle sue regole, Raised by Wolves fa un lavoro egregio, disponendo tutte le pedine e apparecchiando un gioco di rivelazioni, ribaltamenti e ambiguità potenzialmente sconfinato e appassionante. Il ritmo compassato impostato da Ridley Scott nell’episodio pilota, e perseguito per tutta la stagione, potrà forse far spazientire qualche fan dell’azione più adrenalinica e roboante, ma è perfetto per immergerci e sommergerci nell’atmosfera (letteralmente) ultraterrena di Kepler-22b e per costruire una tensione via via più intollerabile. Ll’attrice danese Amanda Collin, che interpreta la protagonista, è una rivelazione (mentre a Travis Fimmel, va detto, forse donavano di più le armature di Vikings). In fondo, forse, non tutta la fantascienza può, o deve, cambiare il mondo come Alien e Blade Runner. E poi eventualmente, per provarci, Raised by Wolves ha almeno una seconda stagione, già confermata.
N.B.: Prima di quello di Raised by Wolves, Ridley Scott aveva girato un altro episodio pilota, quello di The Vatican, serie “sugli intrighi, le rivalità, i misteri e i miracoli della chiesa cattolica”. Ma il pilota non è mai stato trasformato in serie, e dunque non lo vedremo mai. Anche se si mormora che fosse abbastanza brutto, è proprio il caso di dirlo: peccato.