A guardare Vittorio Emanuele di Savoia nelle prime scene del Principe, vien da pensare a un Complotto contro l’Italia, un Philip Roth però a Porto Rafael o a Champoluc: e se al referendum fosse passata la monarchia, e se a governare (a regnare) oggi fosse lui? Chissà, forse parleremmo tutti come questo re mancato che sembra scritto dai sommi Vanzina: “Chi è che vuole uno champagnino?” – detto, con nonchalance estrema, alla fine di queste tre ore, dopo aver parlato di un crimine di cui forse è colpevole, non si è mai capito.
È un aristo-Vanzina true crime, ma anche una meglio gioventù tra Giuseppe Patroni Griffi e il poliziottesco anni ’70 coi bellocci di buona famiglia e le modelle e le barche, questa brillante e spietata docuserie che è la cosa più bella che possiate trovare su Netflix in questo momento. L’ha pensata e diretta Beatrice Borromeo Casiraghi, che l’ha anche prodotta insieme a Francesco Melzi d’Eril, i cognomi non mentono e anzi sono il lasciapassare per mettere questa gente che “we’ll never be royals” al muro. Soprattutto Vittorio Emanuele, appunto, accusato a fine anni ’70 di aver esploso il colpo di carabina che, in una rada dell’isola di Cavallo, uccise Dirk Hamer. Lo sfondo, una gita fra rampolli romano-cosmpoliti tra cui Giovanni Malagò, ormai presenza fissa in tutte le docuserie noir di Netflix (vedi anche il notevole Caso Alex Schwazer).
Fanno le cose tra loro, questi nobili che qui hanno tutti qualcosa da guadagnare: Borromeo Casiraghi un documentario che la posiziona come nuova autrice/produttrice da tenere d’occhio, dopo il lavoro in tv con Santoro e al Fatto Quotidiano; Vittorio Emanuele di Savoia una ribalta che non ha mai avuto, tranne che nel periodo in cui finì il soffertissimo esilio e si mise a girare il Paese come una Miss Italia che inaugura negozi di cucine.
Ne esce la fotografia di un’umanità riservatissima e che insieme non vede l’ora di apparire, una comunità autosufficiente, in cui tutti si conoscono non da quarant’anni – cioè la durata di questa storia – ma da secoli, che crede di stare nel mondo reale e invece ne resta sempre meravigliosamente fuori, seduta su divani di broccato tramandati di generazione in generazione, di villa in villa, anche quando la cronaca nera di ieri e le serie crime di oggi vogliono trascinarcela dentro a forza. “Non mi hanno messo con gli altri”, dice del resto Vittorio Emanuele rammentando di quando lo portarono nel carcere di Ajaccio. Carcere in cui, dice lui stesso, si stava benissimo, si prendeva il sole (?) e si mangiava “blanquette de veau”. Noi, loro, gli altri: sta tutto qui, in questa separazione netta fra un mondo e l’altro, fra un’umanità e l’altra.
È un mondo, quello interpellato da Borromeo Casiraghi, che anticipa l’Italia che sarebbe venuta dopo, che l’avrebbe pure governata dai piani alti delle grandi aziende, ma restandone sempre fuori. È l’Italia di Porto Rotondo prima che diventasse sinonimo di Silvio con la bandana, l’Italia della P2 come Erasmus un po’ naïf (splendido Vittorio Emanuele che, di fronte a uno stranito Enzo Biagi, confessa “eh sì, sono entrato nella massoneria”). Un’Italia in cui l’avvocato dei Savoia, tale Isolabella che già il nome basterebbe, chiede di riaprire il caso sul principe perché “ho sentito in un bar di Portofino” che le cose erano andate diversamente.
La vera protagonista di questa storia è Birgit Hamer, sorella del ragazzo rimasto in coma per mesi e poi morto per quel colpo sparato a Cavallo. Modella e aspirante attrice, viene mostrata in lingerie in una scena di Amo non amo con Jacqueline Bisset. Quando sarà ormai diventata pasionaria di professione, in cerca di giustizia per il fratello (il padre, invece, si trasformerà in una specie di Di Bella, s’inventerà la sindrome di Dirk Hamer per dire che il cancro è frutto di un trauma psicologico e non va curato), la vediamo intervistata sul divano di Harem di Catherine Spaak. È un film dei Vanzina, mica lo dicevo a caso: le stesse facce, lo stesso mix di eleganza e malinconia, di esotismo e mitomania.
Si sente parlare tantissimo di soldi, in questo Principe. C’era “tanto caviale, lì all’epoca non costava tanto”, ricorda Marina Doria parlando del matrimonio a Teheran con Vittorio Emanuele. “Ho pagato sia per la birra che per la benzina”, lamenta Vittorio Emanuele quando dal lago Maggiore verrà portato fino al carcere di Potenza su una squallida Punto della polizia – e qui viene riesumato un altro eroe per un giorno di un’altra Italia: il PM Woodcock.
C’è l’ossessione proustiana per un mondo mai vissuto, da questi Guermantes dalla parte di Lausanne. Vi basti il magnifico transfer di Vittorio Emanuele con Luigi XVI: prima teme la ghigliottina, poi, quando viene accompagnato dinanzi alla Corte d’assise francese, spera che le “vecchie manette” che gli hanno messo ai polsi siano le stesse del re spazzato via dalla Rivoluzione.
Oggi tutti fanno i documentari, senza sapere che per farli bene servono tantissimi materiali, tantissimi testimoni. Beatrice Borromeo Casiraghi se li procura tutti: perché ha le giuste chiavi che aprono tutte le porte di questa storia, e anche perché sa come raccontarla a dovere. Fino alla fine, con l’eccezionale epilogo su Juan Carlos di Spagna e l’ammissione di Vittorio Emanuele, di fronte alla domanda “rifarebbe tutto?”: “Era difficile fare qualcos’altro. Cosa vuole che facessi”.
Probabilmente, vien da pensare allora, questo Complotto contro l’Italia non sarebbe mai stato possibile, forse questo re semplicemente non voleva regnare, gli basta essere monarca di un regno che non c’è mai stato, meglio stare tra champagnini e caviale (purché a poco prezzo), a rimpiangere un sogno evanescente, vittima, però vanitosissima, alla ricerca di un tempo perduto prima ancora che cominciasse.