Fuori da un sex shop di Prenzlauer Berg una coppia (direi) etero (direi) è indecisa: meglio la vulva rosa grande o quella più piccola e scura? Scelgono la prima, entrano, li seguo, pagano la loro cartolina e se ne vanno contenti. Mi guardo intorno, «le serve qualcosa?», «do un’occhiata», sono anch’io indeciso su un paio di cose, «magari ripasso, grazie». Non è un caso essere nella città in cui non distingui un negozio del sesso dal fioraio accanto, fuori ci sono solo cazzi invece che gladioli; dove la gente entra come se andasse in cartoleria (qui esistono ancora pure quelle, e forse è questa la notizia davvero sorprendente); nella città del Kit Kat Club di Sally Bowles e del suo omonimo di oggi dove, con pari vezzosa ironia, «if you run into my mama, don’t reveal my indiscretion», ma alla fine probabilmente anche la mamma sarebbe d’accordo; la città dove vige «l’onnipresenza del sesso» (Vincenzo Latronico, La chiave di Berlino, Einaudi), dentro quei locali non più così segreti ma anche nella routine con «le serate il sesso le inaugurazioni di mostre» (idem), tutto insieme senza virgole. Non è un caso essere qui, a Berlino, per la presentazione di Supersex, evento speciale della Berlinale e serie attesissima (su Netflix dal 6 marzo) che vedranno tutti, «e non vedo l’ora di far incazzare un po’ di gente», gongola Alessandro Borghi, «già sotto il trailer vedi i commenti di chi dice “bravissimi” e gli altri che invece “ma siete matti”, ma alla fine la vedranno tutti e noi saremo lì a prenderci qualsiasi cosa, è il motivo per cui l’abbiamo fatta, le cose facili non c’interessano».
Dunque eccoci qui e non «nel Paese di cui si può parlare di tutto tranne che del sesso» (sempre Borghi), con questa serie che è un tentativo, da parte di Netflix, di spostare l’angolo, senza però smussarlo; di raccontare Rocco Siffredi – quello è il punto, già lo sapete – stando a metà tra il biografico e il simbolico, l’immanente e il trascendente, persino. Dietro c’è Francesca Manieri, donna, e omosessuale, e attivista, e scrittrice di tanto cinema che ha provato a ribaltare il discorso sul genere (Vergine giurata e Figlia mia di Laura Bispuri, il sottovalutatissimo Amori che non sanno stare al mondo di Francesca Comencini, L’immensità di Emanuele Crialese, più la serie – che è totalmente cinema – We Are Who We Are di Luca Guadagnino), ma anche dietro il nuovo corso rappresentato da autori come Matteo Rovere, qui produttore e anche regista insieme a Francesca Mazzoleni e Francesco Carrozzini (con Rovere Manieri aveva fatto Veloce come il vento e Il primo re, anche lì sguardi laterali su un femminile non canonico e un maschile addirittura fondativo – della gens maschia italica, nientemeno).
Dunque Manieri riceve il soggetto incandescente che è Rocco e, dicono, con lui ci parla, ci discute, ci litiga anche, e doveva forse arrivare proprio a quel punto per convincersi, perché «quando quattro anni e mezzo fa Lorenzo Mieli (tra i produttori, nda) me l’ha proposta, io non l’ho mica preso sul serio. Poi però ho pensato: finché noi donne non accettiamo la sfida di raccontare l’altro, essendo noi state narrate per secoli, non possiamo incidere sul cambiamento che tanto andiamo teorizzando». Ed ecco Rocco, il suo Rocco, che di colpo «rappresentava un discorso sulla formazione della mascolinità, e sullo stato dell’arte del maschile e del femminile, e su come sono costruiti i generi, su cosa sta accadendo al porno, che oggi non è più l’avanguardia che è stato negli anni ’70 e ’80; in generale, sul sesso come dispositivo di potere», e lì sta il nodo.
Rocco è lì, accanto a Manieri e Borghi che lo interpreta senza imitarlo, e assicura che è tutto vero «al 98 per cento, in fase di scrittura avevo un po’ di dubbi su come [Francesca Manieri] voleva raccontare certe cose, poi ho visto tutta la serie in mezza giornata ed è stato molto forte, anche pesante, anche se la fortuna è vedersi rappresentati quando si è ancora vivi». Ride. «In scrittura non vedevo come certe situazioni potessero rappresentarmi perché non ci vedevo me stesso, non riuscivo a guardarmi dentro come invece è riuscita lei. Ho chiesto di tenere fuori quel 2 per cento per proteggere alcuni famigliari, ma questa storia mi rappresenta al 100 per cento, nel bene, nel male, nel dolore, in tutto».
Supersex, dal giornaletto che per Rocco è come la ragnatela per Spider-Man (sempre di secrezioni si parla), è «un eterno coming of age» (definizione di Manieri), comincia da Rocco prima di Siffredi, quand’era ancora Tano, bambino, poi ragazzo (Saul Nanni, bravissimo) fino al Rocco uomo (bravissimo al solito pure Borghi). E attorno a lui le figure chiave della sua educazione sentimentale, tra Balzac (la Lucia che al paese tutti vogliono, interpretata in età più matura da Jasmine Trinca e la sua luce pure nei vicoli bui e lerci) e Maupassant (il fratellastro Tommaso, da adulto un debordante Adriano Giannini, che gli indica quel potere che ha in mezzo alle gambe, e lo battezza, e lo instrada nella società, nella perdizione, indirettamente nel ritrovamento di sé).
Sono tutti qui a presentare la serie, gli attori, e c’è un senso di gravitas, come dicono dalle parti di Sarandos, perché si capisce che tutti hanno accettato di farla per qualcos’altro. «Io non ho mai avuto un grande senso del pudore, per la gioia di mia mamma», questo è Borghi, «ho sempre sentito una grande libertà, anche verso il mio corpo, ma la mia educazione sessuale è passata per il porno, perché solo quello avevamo. È l’educazione sessuale dello spogliatoio, dei banchi di scuola ma senza un professore a guidarti, dei luoghi dove non c’è nessuno che dà un peso alle parole, dove il sessuale non è mai anche il sentimentale. E quindi questa serie è stata l’opportunità, da maschio, per interrogarmi su me stesso e la mia educazione sentimentale, sul mio aver sempre pensato di essere esente da alcune cose e invece ne faccio parte anch’io, e profondamente. Io del sesso sono sempre stato innamorato, e a questo non c’è una cura, come quando ho scoperto di avere la sindrome di Tourette e anche lì sai che non c’è una cura, ce l’hai e agisci di conseguenza. E così faccio io ora, dopo questa serie, non mi siedo più a un tavolo dicendo di un altro maschio “quello si comporta così, ma io non sono così”, ho il coraggio di dirmi che anch’io faccio la stessa cosa».
C’è la curiosità, i giornalisti stranieri qui a Berlino fanno richieste per intervistare Rocco anche più degli italiani, e del resto «gli anni ’80 e ’90 del porno, quelli miei e di Moana, di Cicciolina, di Schicchi sono stati i più belli di tutti, è stato il porno più pulito e più libero del mondo, e se dico mondo parlo proprio di mondo». Ma ovvio c’è la curiosità un po’ morbosetta degli italiani che, ieri come oggi, ridacchiano sulle misure, e le presunte protesi di Borghi (non ci sono), «vogliono sapere se si vede», anzi di più, «una collega l’altro giorno doveva chiudere il pezzo, e la serie non l’aveva ancora vista, e allora mi fa: “ma il cazzo in erezione c’è?”». E fa sorridere che tutto questo accada su Netflix, dopo un anno a dirci – via SKAM – quanto è bello e importante (e lo è) riflettere sul micropene, e accoglierlo parimenti senza tabù.
Però questa non è una serie sul cazzo (scusate), o meglio è la serie sul «cazzo come sineddoche: Rocco è il cazzo del mondo», dice Manieri. «Rocco non è eccezionale, è solo l’eccesso della mascolinità. È l’emblema, è quello che ci mette la faccia e il corpo. È colui che ci rivela cos’è il maschile già da quel battesimo che è un atto mitopoietico, e poi con quel cazzo che è un dispositivo emotivo», riecco il dispositivo, «che dà voce alle nostre domande collettive e finisce per creare uno strappo melanconico: gli uomini non sono più liberi delle donne, sono solo costretti ad essere più violenti». Perciò anche per questo, davanti al cast di Supersex, la consueta pruderie della stampa italiana in cerca di buffet scompare o resta quantomeno silente. Manieri cita, in risposta a chi le dice che il linguaggio di Supersex sarebbe troppo alto, Jean Genet – «quando gli dicevano che le serve non parlano così, lui rispondeva “io parlerei così se fossi una serva”, e quindi sì, anche a Rocco ho voluto dare un livello, diciamo così, coscienziale» – e tanto cinema, C’era una volta in America, e Rocco e i suoi fratelli, inevitabile non solo per ragioni di onomastica ma anche per quella stirpe di provincia che finisce per uccidersi, insomma gli archetipi, Giannini tira fuori Amleto e Macbeth per il suo personaggio da cui «all’inizio volevo scappare via».
E Jasmine Trinca chiude su ’sto benedetto femminile, che oggi vuol dire tutto e niente (o come mi ha detto Maria Sole Tognazzi: “che due coglioni”), ma che qui un peso forte ce l’ha. «Lucia mi permetteva, forse per la prima volta nella mia carriera, di dare voce a un mio pensiero profondo, che è il voler sfuggire al mio destino, e allo sguardo dell’altro, che da quando faccio l’attrice si è decuplicato. Di pensare alla persona che avrei potuto o avrei dovuto essere, e poi invece finisci altrove. E qui c’era un discorso sul corpo come possibilità di esperienza sul mondo, e sulla prostituzione anche, che non è stata poca cosa per me. Lucia è la donna che s’ingabbia – c’era nel copione questa bella battuta che poi è stata tolta, “l’amore della vita è una galera” – ma anche lo sguardo che restituirà a Rocco la verità, la sua vera natura».
E, a un certo punto, Rocco, quello vero, piange, singhiozza, e Borghi dice «questa vale come risposta a chi dice: che bisogno c’era di fare questa serie?», e lo abbraccia, abbraccia l’uomo che ha imparato a svelare il vero abisso, che è quest’intimità ancora più animale del corpo. Ci parlai anni fa a Venezia per il documentario francese (registi Thierry Demaizière e Alban Teurlai) che lo ritraeva però con troppa fregola arty, e trovai la stessa persona deliziosissima e fiera delle sue ferite. E oggi è il fiero alfiere del porno «vecchia maniera», quello che porta avanti nella sua accademia di Budapest. «Con l’avvento di internet è cambiato tutto, il porno si fa solo per i soldi, non c’è più la vocazione: i ragazzi la vocazione l’hanno persa quindici anni fa. Io lo faccio ancora come una volta, da cineasta che ama il porno come genere cinematografico, non come posto in cui trovi di tutto e di più secondo quello che ti piace, come è internet oggi. Io non cambierei mai il mio mondo con quello di oggi», e di quel suo mondo fa parte anche il Postalmarket come acme dell’eros, e finalmente ride.
Supersex sarà la nuova educazione sessuale? No, ma l’ambizione è parlare anche con la Gen Z (chiedo scusa), che cresce col porno e, cosa forse peggiore per come reagiscono qui, con i like. «L’uso dei social mi fa cacare», dice Borghi, «è una mia battaglia personale, dobbiamo liberarci dal fatto di dover piacere a tutti». «Questa è una storia d’amore che vuole dirci che c’è una differenza tra essere liked sui social e amati, accettati, anche se si è così complessi», questo invece Carrozzini, e complessità è una parola che torna spesso. «Il like è un dispositivo narcisistico», gli va dietro Manieri, ormai affezionatissima alla parola dispositivo, «c’è solo l’ipertrofia di te stesso. Qui vogliamo dire che è lo sguardo dell’altro, inteso proprio come sguardo fisico, a sapere e a dirti chi sei, che devi uscire da te, che devi andare incontro a quello sguardo. Il porno degli anni ’80 era rivoluzionario perché metteva al centro la sessualità, e infatti arrivava la polizia a fare le retate, adesso è solo un atto masturbatorio, non siamo più capaci di mettere insieme il sesso col “ti amo”». Rovere dice che s’interroga «come narratore, come intellettuale, su cosa significa questa serie per la Gen Z, e io spero che li invogli a non credere solo nella passività, che dia elementi di complessità, di dibattito, perché il dibattito deve esistere e invece è lì addormentato da anni, tutto è semplificato. E non è vero che c’è solo l’algoritmo che critica Nanni Moretti», ride, «si può anche provare a tornare a quel cinema con cui siamo cresciuti, che era complesso, problematico. Ecco, Supersex non è un racconto pacificato, vuole essere problematizzante».
Rocco piange ancora, «qui tutto torna a galla… mi scuso, ma non riesco a distaccarmi», però dice che è felice, indica Rosa, «io la chiamo Santa Rosa, perché solo una santa poteva salvarmi», e con quello che è stato – l’eccesso, non l’eccezione – sembra aver fatto pace anche lui, «sono orgogliosamente l’uomo oggetto per molte donne, non mi pento di niente, anche se per tutto questo qualcosa ho pagato, e ancora oggi guardo la mia famiglia e mi chiedo come posso essermela meritata, perché non mi sembra possibile», e ancora piange, e poi però gli si chiede che fine ha fatto Gabriel Pontello (andate su Google, o guardate la serie), «l’avevo contattato per il documentario e mi ha mandato a fanculo», e ride prima di fuggire fuori dalla porta con la sua Santa Rosa, verso il red carpet, verso dove chi lo sa, e io mi accorgo di avere addosso una felpa con sopra scritto BORDEL, che è il nome dell’agenzia di una coppia di amici e va bene così, la complessità, il dispositivo, l’ipertrofia, e la notte berlinese che deve ancora cominciare.