C’è una qualità che contraddistingue la materia tolkieniana, e cioè che è “grossa”. Grandissima, monumentale, imponente, colossale, smisurata, sterminata, gargantuesca, scegliete pure il sinonimo che preferite e aggiungete i superlativi che più vi piacciono, il punto non cambia. J.R.R. Tolkien era un creatore di mondi – anzi, di universi – espansi nello spazio e nel tempo, forniti di linguistica, mitologia, sociologia e storiografia, più dettagliati di una fotografia a centinaia di gigapixel. A portare sullo schermo Il Signore degli Anelli ci hanno pensato, una volta o l’altra, e poi hanno rinunciato, Stanley Kubrick, Walt Disney, David Lean, Michelangelo Antonioni, George Lucas, il papà dei Muppet e di Labyrinth Jim Henson, i Beatles. Il regista britannico John Boorman ci provò, poi optò per una cosetta più semplice: il ciclo bretone di Re Artù e i cavalieri della tavola rotonda (con il film Excalibur). L’animatore Ralph Bakshi ci andò vicino, realizzando un film cartoon da La compagnia dell’anello, ma non riuscì mai a portare a termine l’intera trilogia.
L’unico ad avercela davvero fatta, finora, è stato Peter Jackson, e infatti come ci è riuscito? Facendo una cosa “grossa”. Molto più grossa di qualsiasi operazione cinematografica fin lì. Sono passati più di vent’anni da quel 2001 in cui nelle sale arrivò Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’anello, nel frattempo ci siamo talmente abituati a trilogie, franchise, universi e multiversi cinematografici, a film dal minutaggio abbondantemente sopra le due ore e mezza, a storie ambientate in vasti mondi fantastici, al punto che quasi quasi tutto questo inizia a venirci a noia; ma all’epoca l’idea di mettere in produzione fin dal principio tre film, da distribuire a un anno di distanza l’uno dall’altro, e per giunta lunghi oltre tre ore l’uno, per di più calati in un universo high fantasy ancora percepito dal grande pubblico come “roba da nerd”… be’, era un’idea abbastanza folle e, appunto, “grandiosa”.
Proprio per questo ha funzionato: Jackson ha dedicato al Signore degli Anelli oltre un decennio di vita e le risorse di un intero Stato (la sua Nuova Zelanda, bellissima e “remota”, perfetta per far da controfigura alla Terra di Mezzo), ha accelerato il progresso della tecnologia digitale per dare vita alle immense battaglie e credibilità al tormento della creatura Gollum, ha fatto costruire interi villaggi, forgiare spade, imbastire costumi, indossare armature, “scolpire” orchi, ha filmato col respiro epico dei grandi kolossal di un tempo. Ha trovato e assunto solo attori giusti. Ha cambiato il cinema blockbuster e ha portato Tolkien (e con lui il fantasy, e non solo) praticamente a tutti.
Circa vent’anni (e un tentativo di prequel, con la trilogia di Lo Hobbit, fallimentare sotto diversi punti di vista) dopo, Il Signore degli Anelli diventa una serie. Targata Prime Video, prodotta dagli Amazon Studios, girata in Nuova Zelanda, fortemente voluta – pare – da Jeff Bezos in persona, in quanto tolkieniano di ferro: Il Signore degli Anelli – Gli anelli del potere ha preso il via il 2 settembre con i primi due episodi di un’avventura di cui, promettono da Amazon, sono previste già cinque stagioni. È, a oggi, la serie più costosa mai realizzata, sostengono i ben informati: solo i diritti d’adattamento concessi dalla famiglia Tolkien sono costati 250 milioni di dollari, e l’investimento promesso è di almeno un miliardo. Ma, prima di ogni altra considerazione, sorge una preoccupazione di formato: ce la farà il piccolo schermo – spesso piccolissimo: le serie delle piattaforme streaming vengono spessissimo guardate anche via pc, tablet e smartphone – a contenere tutta la “grandezza” dell’universo tolkieniano?
Non è solo una banale questione di pollici dello schermo (aspetto comunque non trascurabile), ma anche di tono, ritmo e impostazione narrativa: Tolkien scriveva cosmogonie, racconti fiabeschi e cronache leggendarie, la tv in genere è popolata (sia detto senza alcuno snobismo, anzi) di situation comedy, procedurali polizieschi, documentari true crime e soap opera multiformi (in quest’ultima tipologia possiamo inserire tranquillamente “eredi” tolkieniane come Game of Thrones e il suo nuovissimo prequel/spin-off House of the Dragon). Stoffe narrative un po’ diverse, ecco. Eppure, dopo aver visto i primi due episodi degli Anelli del potere, molti dubbi si sciolgono: è evidente che, più di tutto, gli autori, i produttori e i registi hanno capito quanto fosse fondamentale realizzare una cosa “grossa”.
Girata, si diceva, in Nuova Zelanda proprio come i film di Peter Jackson (anche se Peter Jackson è stato escluso, con qualche polemica, dalla produzione), Gli anelli del potere allinea una quantità stupefacente di location mozzafiato, distillando scenari luminosi e lirici che dispiace non poter vedere in IMAX, seduti in poltrona al buio, senza distrazioni, trattenendo il fiato per la meraviglia insieme ad altri compagni spettatori. Considerate che questa nuova serie non è una nuova trasposizione della vicenda di Frodo & Compagnia, ma un vero e proprio prequel: si basa ufficialmente sulle Appendici del Signore degli Anelli, che a dispetto del nome – ma perfettamente in linea con Tolkien – sono più vaste e imponenti, nel contenuto, del triplice romanzo stesso, dal momento che coprono migliaia di anni e contengono moltitudini di personaggi e di eventi.
Gli anelli del potere, per farla breve e immediata, racconta nel dettaglio più o meno quel che Galadriel/Cate Blanchett riassumeva nel prologo della Compagnia dell’anello (e lo show inizia con un prologo che è un richiamo diretto a quello del film di Jackson): un tempo elfi, nani e uomini vivevano “felici” nella Terra di Mezzo, ma l’oscuro signore Sauron seppe ingannarli, facendo forgiare gli eponimi anelli del potere e poi creando segretamente un unico potentissimo anello «per domarli tutti». La Terra di Mezzo che abbiamo imparato a conoscere con i film jacksoniani è, per certi versi, la versione post apocalittica di quella degli Anelli del potere, che si svolge qualche millennio prima, in un’epoca di prosperità e relativa riconquistata pace, in cui fioriva la leggendaria civiltà di Númenor, nelle Terre dell’Ovest (potremmo descriverla come una versione tolkieniana di Atlantide), e i nani estraevano ricchezze dalle miniere di Khazad-Dûm, tutte cose di cui nei film di Jackson vediamo le rovine e percepiamo la nostalgia, e che invece nella serie Prime Video brillano (o brilleranno) in tutta la loro candida e primordiale lucentezza.
Sconfinato sembra anche il cast degli Anelli del potere, con decine di ruoli che in un’epoca televisiva ormai lontana avremmo definito regular, e svariate linee narrative che scorrono apparentemente parallele: la sopra citata elfa Galadriel, in una versione più “giovane” (virgolette d’obbligo: ha comunque migliaia di anni) e interpretata da Morfydd Clark, è un’inesausta guerriera decisa a scovare Sauron, che tutti credono ormai scomparso (e invece sappiamo bene quanti danni farà); il mezzelfo Elrond (che nei film era incarnato da un malmostoso Hugo Weaving e qui da un ottimista Robert Aramayo, il quale – coincidenza! – ha dato il volto pure al giovane Ned Stark in un flashback di Game of Thrones) è un consigliere del re supremo degli elfi Gil-Galad (Benjamin Walker), e cerca una collaborazione con i nani di Moria attraverso il principe Durin IV (Owain Arthur); nel territorio che in futuro diverrà Mordor, la mortale Bronwyn (Nazanin Boniadi) e l’elfo silvano Arondir (Ismael Cruz Córdova) sono sul punto d’intrecciare una relazione “proibita”, ma il vero pericolo è una misteriosa oscurità che inizia a diffondersi tra i villaggi e a corroderli; altrove, in un gruppo di harfoot (o pelopiedi, se preferite la traduzione italiana), “antenati” nomadi degli hobbit, ci sono Nori Brandyfoot e Poppy Proudfellow (Markella Kavenagh e Megan Richards: un po’ il “Frodo e Sam” della serie), due giovani che sognano l’avventura e trovano un uomo gigante e misterioso, letteralmente caduto dal cielo come una stella cadente; l’elfo Celebrimbor (Charles Edwards), il miglior fabbro della Terra di Mezzo, è determinato a forgiare qualcosa di straordinario (e noi sappiamo già, purtroppo, che si tratterà dei celeberrimi Anelli…); nei prossimi episodi visiteremo finalmente anche Númenor e la corte della reggente Míriel (Cynthia Addai-Robinson), e conosceremo Isildur e Elendil (Maxim Baldry e Lloyd Owen), personaggi cruciali nella futura battaglia contro Sauron (per un ripasso veloce, riguardate sempre il prologo della Compagnia dell’anello)…
Insomma, quella degli Anelli del potere è un’imponenza che non si limita a costumi e location, ma che di Tolkien cerca la vastità di sguardo, oltre allo spirito sincero, limpido, in un certo senso “innocente”, l’opposto del “cinismo”, della crudezza e del presunto “realismo” di Game of Thrones ed epigoni: queste sono, da sempre, storie di Bene vs Male, fatte della sostanza di cui sono fatti i miti, il folklore, le favole – non per forza, però, semplicistiche o manichee, visto che il tema della corruzione del potere è tra i più cruciali della produzione tolkieniana. Almeno a giudicare dai primi due episodi, diretti da J.A. Bayona (il cineasta spagnolo autore di The Orphanage, The Impossible e Jurassic World – Il regno distrutto), la serie Prime Video – coordinata da due sceneggiatori pressoché sconosciuti, J.D. Payne e Patrick McKay – sembra determinata a mantenersi fedele a questo spirito.
Anche correndo diversi rischi, primo fra tutti quello di risultare ostica, se non ostile, a chi di Tolkien è completamente digiuno, o a chi si aspetta i melodrammatici intrighi di palazzo e la verosimiglianza esplicita di Game of Thrones: il confronto è inevitabile, le due serie hanno sulla carta molto in comune, ed è evidente che anche Gli anelli del potere s’inserisce nel foltissimo drappello di produzioni che ambiscono a essere “il nuovo Trono di spade” (di cui fa parte pure il nuovo prequel del Trono stesso, House of the Dragon), sperando di poter replicare il successo travolgente del maggior fenomeno seriale degli ultimi anni.
Il Signore degli Anelli – Gli anelli del potere non è il nuovo Trono di spade, per fortuna. Ma, sempre per fortuna, è qualcosa di “grosso”, forse addirittura troppo grosso per il piccolo schermo: la sua magniloquenza visiva, il suo respiro epico, il suo passo cadenzato, la fitta complessità del suo universo richiedono una visione attenta, una pazienza e una fiducia maggiori di quelle che in genere siamo abituati a concedere alle visioni streaming (la molteplicità di personaggi e di storyline, però, è molto “televisiva”, il che ci fa sperare che questo non sia l’ennesimo “film di otto ore”, ma una vera, e possibilmente bella, serie tv). Solo il tempo e le reazioni del pubblico sapranno darci una vera risposta: per ora lasciateci essere felici che, in un panorama di algoritmi e scommesse sul sicuro, qualcuno ancora s’imbarchi un’impresa grandiosa e un po’ folle, in un’imprevedibile avventura.