Nei secondi iniziali dell’adattamento di HBO del bestseller di Viet Thanh Nguyen, Il simpatizzante (dal 20 maggio su Sky e in streaming su NOW, ndt), il familiare logo del colosso della pay tv si trasforma in modo da evocare l’accensione di un televisore, ma diventa parte di una bobina di pellicola da 8 mm. La miniserie, che racconta di un agente doppiogiochista nordvietnamita (Hoa Xuande) a metà degli anni Settanta, è piena di immagini e suoni che rimandano al cinema. A volte il cinema è dentro l’azione stessa, come l’interrogatorio di una spia Viet Cong da parte della polizia sudvietnamita che avviene sul palco di una sala di Saigon, con il proiettore che punta una luce abbagliante sul sospettato, mentre i poliziotti sulle poltrone della sala commentano l’azione come se fosse un film che stanno guardando. Altre volte si tratta invece di un espediente stilistico: si sente, per esempio, il suono della bobina che si riavvolge o avanza velocemente quando la storia prende una brusca svolta cronologica.
Il capitolo centrale della saga in sette episodi è addirittura dedicato alla produzione di un film fittizio sulla guerra del Vietnam, The Hamlet, per il quale il nostro protagonista, noto solo come il Capitano, lavora come consulente tecnico. Il suo obiettivo è quello di umanizzare il più possibile i personaggi vietnamiti, a partire da un compito quasi imbarazzante: deve convincere il regista del film, Nicos (il fresco vincitore dell’Oscar per Oppenheimer Robert Downey Jr.), a dare a quei personaggi delle battute. Qualsiasi battuta.
Quando un collega vietnamita del Capitano dà un’occhiata a The Hamlet, lo giudica spazzatura, ma ammette che se lo si guarda da una prospettiva americana “è piuttosto progressista”. Se Il simpatizzante – diretto principalmente dal grande regista sudcoreano Park Chan-wook (Old Boy, Decision to Leave), che ha adattato il libro insieme a Don McKellar – non è un’esatta immagine speculare di quel film-nel-film, ci si avvicina parecchio. Quasi tutti i personaggi sono vietnamiti, e a ciascuno di essi viene data complessità e vita interiore. Con l’eccezione di David Duchovny, che interpreta la star sopra le righe di The Hamlet, i pochi personaggi bianchi di rilievo sono tutte delle figure cartoonesche interpretate da Downey Jr.
La storia è presentata come la confessione del Capitano al comandante di un campo di rieducazione nordvietnamita, che ripercorre il suo periodo sotto copertura come poliziotto segreto sudvietnamita; il suo soggiorno in America dopo la caduta di Saigon, inviato dai suoi responsabili per tenere d’occhio il Generale (Toan Le); e il ritorno nel Sudest asiatico che lo fa finire in quel campo, dove si ritrova ad espiare i suoi molti peccati. Anche all’interno di questa cornice, Il simpatizzante si muove vertiginosamente nel tempo, a volte perché il racconto del Capitano è lì che riporta, a volte perché il suo interrogatore vuole un contesto più ampio. Questo approccio da matrioska che nasconde pezzi di narrazione all’interno di altri pezzi potrebbe facilmente creare confusione. Ma succede mai, per diversi motivi.
Il primo è che Park Chan-wook e Don McKellar non hanno abbandonato il sense of humour che ha fatto vincere al libro il Premio Pulitzer per la narrativa nel 2016. Non tentano mai di ignorare o sminuire le tragedie di una nazione divisa in due, con centinaia e centinaia di migliaia di morti, famiglie separate, rifugiati che si sentono perennemente sfollati e altro ancora. Eppure, anche con tutto questo alla base, questa è una serie molto, molto divertente. Il Capitano e i suoi alleati – sia quelli realmente comunisti che i capitalisti per cui finge di lavorare – sono spesso rappresentati come dei fannulloni che hanno avuto la fortuna di ottenere qualcosa. In una scena del primo episodio, al Capitano viene assegnato il compito di scegliere quali agenti della Polizia Segreta potranno salire sull’aereo del Generale per l’America prima della caduta di Saigon, e quanti familiari potranno accompagnarli. Quando un uomo minaccia di suicidarsi se non gli viene assegnato un numero maggiore di posti, il Capitano gli offre una pistola e si allontana dalla stanza per lasciargli un po’ di privacy; dopo averci pensato un attimo, l’uomo lascia perdere la pistola e ruba tutte le caramelle dalla scrivania del Capitano.
I vari uomini bianchi di potere che il Capitano incontra – l’agente della CIA Claude (Downey con i capelli ricci e diradati), l’ipocrita professore di “Studi orientali” Hammer (Downey calvo e panciuto), il veterano militare trasformato in politico “Napalm” Ned (Downey sotto una tonnellata di abbronzante, con un parrucchino evidente) e Nicos (la cosa più vicina a Downey, quasi una versione di sé stesso negli anni Settanta) – sono tutti fondamentalmente ridicoli in modi diversi (*). E anche le sequenze in cui il Capitano e/o il suo migliore amico Bon (Fred Nguyen Khan) devono uccidere delle persone sono presentate come slapstick o in forma di horror. L’ironia fornisce un gradito contrappeso alla natura serissima del materiale di partenza, e aiuta anche a mantenere chiara la frattura della linea temporale, perché le continue digressioni e inversioni di marcia sono una gag in sé, a cui vale la pena prestare attenzione in ogni momento.
(*) Downey, che è anche produttore esecutivo, chiaramente si diverte a indossare tutte queste parrucche e protesi. Nella maggior parte dei casi, le interpretazioni funzionano bene e suggeriscono una linea temporale diversa in cui Downey è riuscito a rimanere nel cast del Saturday Night Live per più di quella disastrosa singola stagione a metà degli anni Ottanta. Ma il professor Hammer, oltre a essere il classico finto paladino delle minoranze che in realtà è più razzista di tutti gli altri, è una femminuccia talmente caricaturale da risultare fuori luogo, e non necessariamente per le ragioni che lui o il regista avrebbero voluto. Ci sono anche alcune scene in cui Claude si traveste da gay esuberante per avere incontri clandestini con il Capitano, e gli spettatori non vanno biasimati se si confondono su quale RDJ stanno guardando in quel momento. Inoltre, è una sorta di inside joke il fatto che, 16 anni dopo Tropic Thunder, Downey interpreti ora il regista di un terribile film sul Vietnam, piuttosto che tingersi il volto di nero per interpretarne la star.
Le contorsioni della trama funzionano anche perché Park è un narratore visivo così affascinante e inventivo. Nel suo ultimo progetto televisivo, la miniserie La tamburina – The Little Drummer Girl (*), si è tenuto a metà strada tra la classica regia hollywoodiana e un approccio più crudo e veritiero, ognuno dei quali è risultato sorprendente a modo suo. Qui, lui e i registi che lo accompagnano (Fernando Meirelles, che ha appena girato Sugar per Apple TV+, e l’inglese Marc Munden) adottano un approccio che prevede tutto e il contrario di tutto. Oltre al motivo ricorrente del proiettore cinematografico, c’è il modo in cui le immagini di pezzi diversi della storia del Capitano si mescolano tra loro anche quando non sta saltando nel tempo. A volte, le sequenze sono girate in modo da sembrare il più realistiche possibile. Altre volte, invece, appaiono deliberatamente fasulle, per mettere in scena le molte bugie che il Capitano sta raccontando e i molti modi in cui Hollywood ha sbagliato riguardo al tema del Vietnam. Di tanto in tanto, il tutto appare semplicemente sbalorditivo, come in una sequenza in cui l’autobus che porta all’aereo del Generale deve fare una manovra in mezzo ai proiettili dell’artiglieria nordvietnamita, con le esplosioni che aumentano fino a far sembrare che il Capitano e Bon stiano correndo verso l’inferno stesso. Visivamente, qui sembra possibile.
(*) È interessante notare che anche questa era una spy story spesso presentata in termini cinematografici, come quando il responsabile di Florence Pugh le dice: “Sono il produttore, lo scrittore e il regista del nostro piccolo spettacolo”.
Soprattutto, però, Il simpatizzante è facile e interessante da seguire perché Hoa Xuande è così bravo nel ruolo del protagonista. Come si addice a un uomo che viene chiamato solo con il suo titolo, il Capitano rischia sempre di sembrare più un simbolo che una persona. Nato da un’affettuosa madre vietnamita e da un assente padre francese, è cresciuto ostracizzato come un mezzosangue, anche se sua madre continuava a dirgli che non era la metà di qualcosa, ma il doppio di tutto (“Due volte di tutto” diventa il soprannome sarcastico ma affettuoso di Bon). Gli altri personaggi cercano costantemente di identificare quali parti del Capitano sono influenzate dai suoi genitori, come se non fosse solo il professor Hammer a rifiutarsi di vederlo come qualcosa di diverso da un mix di due culture che lottano per coesistere (*).
(*) L’unico personaggio che non lo vede in questo modo è la sua ex fidanzata Sofia Mori, interpretata da Sandra Oh. Anche i suoi sentimenti sono guidati da questioni più ampie sull’integrazione, dal momento che lei è di origine giapponese ma è nata in America e si considera prima di tutto una californiana.
Ma se il personaggio è a volte scritto in modo troppo didascalico, Xuande lo interpreta con il giusto misto di umorismo e vulnerabilità. Per tutti gli altri, il Capitano è un’astrazione; ma per lui questa incapacità di sentirsi a casa – non abbastanza vietnamita a Saigon, non abbastanza bianco in America, un uomo che mente al suo migliore amico ma che non pensa e non agisce più come i suoi veri colleghi di Hanoi – è una cosa reale e dolorosa da cui non riesce mai a liberarsi. Xuande, un attore australiano che non ha lavorato molto in America prima di questo film, domina lo schermo, mostrando con il suo volto tutte le cose che il Capitano non si permette di dire ad alta voce, e tenendo insieme tutta questa strana storia. È davvero eccezionale.
Nonostante quella performance, quelle immagini e tutta quell’ironia, ci sono momenti – soprattutto verso il finale, che si svolge in gran parte nel campo di rieducazione – in cui Il simpatizzante, proprio come il suo eroe, si perde un po’ troppo nei suoi pensieri. Il più delle volte, però, funziona molto bene, nonostante l’alto grado di difficoltà che si sarebbe presentato in qualsiasi adattamento del libro.
Durante le riprese di The Hamlet, le comparse sudvietnamite si oppongono al fatto di recitare i dialoghi filocomunisti che il Capitano ha assegnato ai loro personaggi Viet Cong. Il Capitano, nel tentativo di placare Nicos, pur inserendo di nascosto una retorica sovversiva favorevole alla sua parte di lotta cerca di fare appello alla natura migliore dei rifugiati. “Perché facciamo arte”, chiede loro, “se non per esplorare la piena complessità della vita, per scandagliarne la profondità, per portare alla luce le verità nascoste, per vedere una cosa da tutti i punti di vista?”.
Le comparse non sono convinte dal suo discorso, ma Il simpatizzante è all’altezza di quest’idea. Ci regala la piena complessità della vita e le verità nascoste di tutte le parti in cause, nello stesso modo che The Hamlet tenta di adottare e che comicamente non riesce a realizzare.