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Jordan Peele, sei bravo ma togliti la testa dal culo

Con la nuova versione di 'Ai confini della realtà', il regista di 'Get Out' prova ad aprirci la mente e a farci vedere il mondo sotto una luce diversa. Operazione quasi impossibile, se ti affidi a storie e idee di 60 anni fa

The Twilight Zone

Nel 1961 Richard Matheson pubblicò, sull’ormai introvabile antologia Alone by Night, un racconto intitolato Nightmare at 20.000 Feet; Matheson compariva a fianco di nomi come Robert Bloch (quello che scrisse Psycho) e August Derleth (il primo editore di Lovecraft e prolifico scrittore nel tempo libero), in quella che era una collezione di opere scritte tra il 1905 e l’anno di pubblicazione. Matheson, che già girava da una decina d’anni, era uno degli innovatori del gruppo: la sua storia parlava di sindrome post-traumatica e sindrome di Cassandra, mascherandola dietro la sempre efficace presenza di un mostrino e fotografando alla perfezione il clima di paranoia crescente di quegli anni – giusto per mettere i sottotitoli: il mostrino in questione era un gremlin, presentato al mondo per la prima volta nella forma di disturbatore di pacifici voli americani nel 1944, in un episodio di Merrie Melodies dove i gremlins erano from the Kremlin.

Nel 2019 Jordan Peele porta in Tv, nella nuovissima serie di CBS intitolata The Twilight Zone, un episodio intitolato Nightmare at 30.000 Feet, e quei diecimila piedi in più dicono moltissime cose interessanti su questa operazione.

Il passaggio che manca è naturalmente quello che portò il racconto di Matheson in Tv, con William Shatner nel ruolo di protagonista, in quello che è ancora oggi uno degli episodi più famosi di Ai confini della realtà. È così che avevamo tradotto in Italia The Twilight Zone, una serie antologica creata da Rod Serling nel 1959 per portare in Tv, e quindi a un pubblico potenzialmente immenso, il meglio della sci-fi di quegli anni, quella dei racconti brevi, provocatori e costruiti su una singola potentissima idea che popolavano riviste e antologie – la sci-fi alla Fredric Brown, per citare l’autore di uno dei pochissimi racconti di quegli anni che gli Intellettuali Veri hanno giudicato degno di venire insegnato a scuola (parlo di Sentinella). Nei sei anni in cui andò in onda, Ai confini della realtà fu una celebrazione e una legittimazione su larga scala della fantascienza high concept, una vetrina di idee più che una vera rivoluzione per il genere; e un libretto di istruzioni per chiunque fosse venuto dopo, da JJ Abrams a Joss Whedon a Charlie Brooker, l’uomo che più di tutti è riuscito a cogliere e aggiornare lo spirito dell’opera di Serling con Black Mirror.

Dicevamo dei 30.000 piedi. Non è la prima volta che si prova a replicare il successo di Ai confini della realtà riesumando il franchise, un’operazione peraltro facilissima visto che parliamo di una serie antologica. Nei due casi precedenti non andò benissimo, ma questa volta dietro all’operazione c’è Jordan Peele, Autore e Premio Oscar, che con Get Out prima e con Noi ora ha dimostrato non solo di avere il talento e la conoscenza della materia necessarie a mettere in piedi un ottimo film della paura, ma anche di essere abbastanza intelligente e sul pezzo dal saperlo ancorare al qui e ora, e renderlo rilevante e stimolante e, quasi esito a usare il termine, necessario. Le speranze sono dunque altissime (altine, via), anche perché il regista nonché comico – è un dettaglio importante, segnatevelo – ha approfittato del finale di Noi per farci vedere che è in grado di maneggiare anche materiale meno francamente horror e più adiacente al mystery in stile, appunto, Ai confini della realtà.

Ora, è sicuramente ingiusto e scorretto e prematuro giudicare un’operazione dopo i primi due episodi (ne sono previsti dieci). Ma i 30.000 piedi, ora la spiego, sono sintomo di un problema di fondo che per ora ha perlomeno fatto capolino in The Twilight Zone. Voglio dire che c’è ancora tempo e modo di risolverlo e metterlo a tacere e a conti fatti potremmo ricordare The Comedian e, sì, Nightmare at 30.000 Feet come un riscaldamento, un divertissement, un po’ di stretching prima di entrare nel vivo. Perché per ora quello che Peele ci ha proposto è un’operazione che non è nemmeno corretto definire nostalgica: certo, l’omaggio all’originale c’è, e una certa reverenza quasi untuosa pure (la sigla sostanzialmente riciclata, Peele stesso che fa il cosplay di Rod Serling copiandone lo stile e i modi e i toni), ma più che ossessionata dal passato The Twilight Zone sembra ossessionata da se stessa, dalla riaffermazione del suo ruolo centrale nella cultura pop dell’ultimo secolo e anche, in effetti, dalla cultura pop tutta.

Adam Scott in “Nightmare at 30,000 Feet”

Sembra quasi che Peele voglia rifare Ai confini della realtà alzando il volume a mille (o salendo di 10.000 piedi) nell’ostinata convinzione che la formula originale fosse talmente perfetta che non c’è alcun bisogno di aggiornarla, solo di darle una bella passata di vernice (gli episodi sono ben diretti ben interpretati bla bla formalmente inattaccabili). Nightmare at 30.000 Feet è sostanzialmente l’originale, solo che al posto del gremlin c’è un podcast e un po’ di complottismo: cambia la forma, indubbiamente si aggiorna, ma la sostanza, il messaggio, la morale, chiamatela come volete, è sempre la stessa di 60 anni fa. C’è più stile, più soldi e più mezzi, e non c’è nulla di male nel voler riproporre le stesse cazzo di idee impacchettate meglio per il pubblico di oggi, a parte che sì che c’è qualcosa di male, perché sono le stesse cazzo di idee e se sei davvero convinto che siano così forti dovresti fidarti di loro invece che supporre che se non le presenti con il vestito buono la gente non le ascolterà (tradotto: lo so anch’io che Ai confini della realtà è un prodotto vecchio e di non immediata digestione, ma se pensi che vada rimesso a nuovo altrimenti ha perso mordente significa o che non ti fidi di lui o che non ti fidi del pubblico, ed entrambe le possibilità sono problematiche).

Va ancora peggio con The Comedian, magnificamente interpretato da Kumail Nanjiani nei panni dell’ennesima confessione a cuore aperto di uno stand up comedian che prende coscienza dell’ambiguità e della complessità del suo mestiere e la confronta con quella che percepisce essere la banalità della sua persona, e ce la mena quindi per un’ora con le sue crisi di coscienza mascherandole da pezzo che dovrebbe anche farci ridere e pensare e ci riesce pure perché la persona in questione è pure brava, e alla fine della corsa ci rendiamo conto che ci ha manipolato emotivamente per l’ennesima volta, a questo giro brandendo la potentissima arma della sincerità.

Lo stand up comedian in questione immagino possa essere chiunque, Peele su tutti considerando che l’episodio è scritto da uno dei suoi autori; certo l’idea di aprire il tuo omaggio a un grande classico con una menata autobiografica richiede un ego e una sfacciataggine che, boh, effettivamente ci sta. Resta il fatto, autobiografia o meno, che The Comedian è l’ennesima variazione sul tema del Faust presentata nell’ombelicalissima cornice descritta sopra. E quindi dove sono le idee nuove, le provocazioni? Sarà davvero l’ennesima riflessione sull’industria dell’intrattenimento e sulle sue mille contraddizioni ad aprire le nostre menti e farci vedere il mondo sotto una luce diversa? C’è qualcosa di illuminante in questi primi due episodi di The Twilight Zone? No. Però vediamo come procede. L’importante, come dicevano gli antichi greci, è che Peele e i suoi amici si tolgano la testa dal culo.

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