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‘La casa di carta 4’: non è cambiato niente, e forse va bene così

Abbiamo visto le prime puntate della nuova stagione da oggi su Netflix (e chiacchierato con il Professore e Arturito). Tra plot-fotocopia e flashback tarantiniani, lo 'stallo alla spagnola' colpisce ancora

Foto: Netflix

Tra i fatti notevoli di questi giorni antivirali, insieme alla scoperta degli alcolici fatti in casa e alla conferma che quelli comprati sono molto meglio, c’è stato condividere mezz’ora delle nostre rispettive quarantene con Álvaro Morte ed Enrique Arce. Nell’ordine: il Professore e Arturito della Casa di carta. La videoconferenza seguiva alla première virtuale dei primi cinque episodi della quarta stagione della serie, che viene resa disponibile oggi su Netflix.

Álvaro è davvero professore, anche se non porta gli occhiali: nasce prima ingegnere delle telecomunicazioni, poi studioso del teatro elisabettiano. Parla del momento storico come un editorialista dal multiforme ingegno: «Vivo bene questo periodo perché sono un amante delle storie scritte, recitate, incise, sia da me che da altri. La speranza è che l’isolamento possa rivelarci che siamo abbastanza intelligenti da tirare fuori qualcosa positivo anche da questa particolare storia. Tra le altre cose, sto cercando di imparare a suonare la viola».

Praticamente identico a come lo abbiamo conosciuto in streaming – costretto alla clausura e con una discreta voglia di uscirne vivo –, Enrique è uno zuzzurellone ambizioso, anche nella vita: «Grazie al successo della Casa di carta, ero da poco tornato a casa dopo nove mesi di lavoro in giro per il mondo. Ora ne approfitto per finire di scrivere un copione che sento come un figlio».



La nuova stagione prende le mosse dal momento esatto in cui avevamo lasciato la terza, con Lisbona e Nairobi ferite a morte. L’elemento di discontinuità è che quest’anno La casa di carta sembra voler finalmente esplicitare le sue vere intenzioni sulla lunga distanza: mostrarci come sia possibile avere successo in 190 paesi e restare originali. Anche in questo – soprattutto in questo – la fortunatissima serie prova, finché può, a resistere all’omologazione estetica di una certa televisione contemporanea, con la difficoltà in più di doversi muovere in un genere tradizionalmente piuttosto schiacciato sul fronte nordamericano: il cinema di rapina con intreccio esile.

Ci ha rivelato Álvaro: «Credo che ci sia sicuramente una componente comune nel cinema spagnolo, che confluisce anche nella televisione. Cerchiamo di fare tutto quanto con molta passione e credo che questo traspaia. Questo è uno degli elementi portanti del successo della Casa di carta. Quando siamo davanti alle telecamere, non facciamo compromessi». Ci ha confermato Enrique: «La fiction spagnola faceva le cose per bene già da molto tempo, non è che improvvisamente abbiamo vinto la lotteria. Quello che è successo con Netflix è che abbiamo avuto per la prima volta a disposizione la catena di distribuzione giusta perché il nostro prodotto arrivasse in tutte le case del mondo».

Fin dalla prima puntata, è chiaro che il presupposto ideologico della Casa di carta 4 sia assoldare lo spettatore in un fronte di liberazione dai pregiudizi, lasciandolo libero di lanciarsi in interpretazioni temerarie almeno quanto lo sono la trovata di fare la rivoluzione diventando miliardari in euro, da parte dei nostri personaggi, e di dire qualcosa di nuovo riscrivendo ogni anno lo stesso soggetto, da parte dei loro autori.

Helsinki (Darko Peric) e Tokyo (Úrsula Corberó)

La lista dei nomi di città assegnati ai protagonisti si allunga fino a mettere gli autori in difficoltà, come i cantautori italiani indie alle prese con la titolazione dei loro nuovi brani, in una fortunata parodia delle Coliche? Poco male. Asserragliati nella sede centrale del Banco di Spagna Tokyo, Helsinki, Palermo, Denver, Rio e compagnia sono rappresentati nell’atto di pensare a tutto tranne che a portare avanti il loro colpo. Soprattutto, tendono a litigare o innamorarsi, o comunque a prendere tempo per il lancio di un nuovo flashback.
Puntata dopo puntata, stagione dopo stagione, la parte più rapinosa della storia si è assottigliata sempre di più, alla Shahrazād, fino a scomparire; o, meglio, fino a diventare la cornice narrativa da cui si dipartono i frammenti di possibili prequel o spin-off che si sarebbero potuti girare, se l’età dell’oro della tv via streaming non avesse cominciato a fare cilecca e se, per correre il minor rischio possibile, i produttori non fossero bloccati in una coazione a ripetere.

I nostri eroi in cerca di trame si rifugiano nei ricordi di stagioni passate o mai girate, in cui le psicologie e le vicende sono soggette a nessi causa-effetto. La cosa ha risvolti liberatori (del resto anche noi tutti, oggi, costretti nelle nostre case, amiamo rifugiarci in sogni impossibili come PornHub o il sito dell’Inps).
Quello che ai nostri attori-personaggi può sembrare un supplizio ben remunerato (girare ogni anno la stessa rapina in serie) per il pubblico, però, grazie alla nuova chiave di lettura, diventa una continua scoperta. Qui sta il genio della nuova stagione.

C’è una particolare grazia nel modo in cui questi frammenti di passato cercano di attingere ciascuno a un suo genere cinematografico. Solo ripetendo continuamente le sue strutture narrative di base, La casa di carta può suonare come un peana dedicato all’arte del non ripetersi. Ci sono bozzetti quasi tarantiniani, specie in alcuni episodi particolarmente pulp della lunghissima origin story di Berlino. A un certo punto il nostro è collocato in un bagno pubblico a domandare «Vale la pena vivere senza pene?», con una forchetta in mano, a un pingue individuo conosciuto qualche minuto prima, che gli aveva sfottuto il papillon.

Berlino (Pedro Alonso) e Palermo (Rodrigo de la Sierra)

Ci sono metastorie del tutto comiche, come le scene dal matrimonio dello stesso Berlino in cui una congrega di monaci, esplicitamente in odore di sorrentinismo, intona Ti amo di Umberto Tozzi, a cappella; fiera, sotto lo sguardo truce del suo priore (un meme auto-proclamato), di restare nell’ambito della sua mission di coro religioso, di non violare il suo voto di silenzio, e probabilmente anche di essere in regola con la Siae. Quando, più avanti, la playlist volgerà verso Battiato, anche il torvo priore apparirà più rilassato.

C’è, chicca tra le chicche, la più lunga e complessa metafora automobilistica mai dedicata al desiderio sessuale nei confronti di una donna (Tokyo), sintatticamente intricata come una bestemmia del giovane Benigni. Ci sono strepitose scene picaresche con il Professore e il fido Marsiglia che viaggiano – Don Chisciotte e Sancho Panza a cavallo di due moto – attraverso campagne deserte, interrotte qua e là da una fila di mulini a vento. «Pisciare a volte è una liberazione», chiosa il nostro balcanico militarista/animalista, mentre al Professore passa davanti agli occhi tutta la sua vita sentimentale.

C’è un’altra scena squisita, la più italomane tra gli easter egg presenti nell’intera serie. Dall’auto di Marsiglia, prima che la radio sia spenta con una manata, Raffaella Carrà emette qualche vagito, un ponte umano sotteso tra le due patrie che La casa di carta invoca come sue: la Spagna e l’Italia, quella reale e quella ideale, quella in cui sono rinchiusi e quella in cui è stato concepito il piano che li ha portati a tornare criminali.

Rio (Miguel Herrán), Stoccolma (Esther Acebo) e Denver (Jaime Lorente)

Davvero saremmo più appagati, come telespettatori, se gli autori gettassero la maschera di Dalí (che devono pur indossare, a loro volta, nel chiuso della stanza in cui stanno scrivendo le prossime annate) e decidessero, una buona volta, di non fare uscire più nessuno da quel maledetto Banco di Spagna, e rendere quei ragazzi davvero immortali. La quarta stagione della Casa di carta potrebbe inaugurare così il manifesto di un nuovo topos della cinematografia: lo stallo alla spagnola, in cui trama e digressioni, torpore e ispirazione si fronteggiano a muso duro, un po’ come fanno spesso Denver e Rio, mitra alla mano, quando devono decidere chi è primo nella fila per il bagno.

I rapinatori chiusi dentro il Banco di Spagna sono gli autori spagnoli che assediano Netflix dall’interno, non già dal di fuori. Ad avercene, anche noialtri italiani, di titoli Netflix che riescano a contenere in ciascuna scena – e nella totalità di una stagione – l’intero nostro spirito nazionale. Al massimo riusciamo a farci portavoce di un quartiere, in serie come Baby, o di un’erede di archistar, in film come The App. Un sottilissimo confine è stato superato, e La casa di carta può essere finalmente goduta per quello che è e vuole essere: una folle vittoria dello spirito localista di un collettivo iberico ebbro di Estrella Galicia sulla major globalista che tutto finanzia.

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