Ci sono due serie tv che, pur essendo realizzate con differenti tecniche produttive e distribuite su piattaforme di streaming diverse, sono così simili tra loro che sembra si siano omaggiate o copiate a vicenda: La casa di carta e l’esperienza politica del Movimento Cinque Stelle.
La casa di carta è, in sintesi, la serie più grillina al mondo. In effetti, a tratti non sembra solo frutto dell’immaginazione di Álex Pina, ma pare una docufiction liberamente tratta dall’epopea dell’ingresso in parlamento e dell’ascesa al governo da parte del Movimento. In particolare, la prima e la seconda parte (la prima stagione della mini serie originale spagnola, poi acquisita e proseguita da Netflix) sono un’allegoria della prima legislatura pentastellata così impeccabile che, se un ideologo visionario del Movimento l’avesse mai commissionata a uno sceneggiatore (soprattutto se l’avesse scelto tramite votazione online su Rousseau), difficilmente sarebbe riuscito a ottenerne uno script così fedele e acuto.
Ma scopriamo insieme sorprendenti analogie e trascurabili differenze fra questi due prodotti audiovisivi.
Le sorprendenti analogie
Le basi. Le premesse delle due serie sono del tutto sovrapponibili. Due bande di anonimi diversamente giovani, con idee molto confuse sia del proprio curriculum che delle proprie prospettive, brigano per dare un forte segnale di discontinuità all’establishment del loro Paese peninsulare di riferimento. Quando, al di là delle loro stesse aspettative, ci riescono, è allora che iniziano i veri problemi.
Le seconde stagioni. Il fatto è che La casa di carta è salita alla ribalta della programmazione di Netflix come i grillini hanno preso il potere o una parte di esso in Italia: 1) in fretta, 2) improvvisando ma, al contempo 3) fingendo di avere avuto un preciso piano per tutto il tempo e, infine, 4) senza abbastanza idee per proseguire oltre il primo mandato/stagione, eppur proseguendo comunque a oltranza. Come ormai sappiamo, la Casa era già la serie grillina per eccellenza. Eppure, dal 19 luglio, con la terza parte, lo è diventata ancora di più. Ormai c’è chi ha portato a casa la sua brava refurtiva, chi l’ha nascosta ai Caraibi, chi ha preso il suo seggio parlamentare, chi il suo ministero o sottosegretariato. Eppure, arrivati al successo, sia gli uni che gli altri sono tutti accomunati da un problema: non sanno più che pesci pigliare, per andare avanti. E sono costretti a inventarsi un pretesto (che sia la sparizione di Rio o la diminuito negli indici di gradimento), per continuare ad andare un’altra volta contro lo status quo; ignorando che, adesso, lo status quo sono diventati loro.
I pubblici. I target dei due prodotti audiovisivi sono in gran parte simili o identici: da una parte, gli spettatori delusi delle serie Netflix scritte bene (ovvero: di nicchia); dall’altra, i cittadini frustrati dalla classe politica corrotta o in grado di parlare l’italiano meglio di loro.
I critici. Entrambi gli show sembrano scritti apposta perché possano essere demoliti dai critici e osannati dal pubblico da casa, grazie ad azioni di disintermediazione di pari passo, le une tra classe dirigente ed elettorato e le altre tra sceneggiatori e telespettatori. Cosa c’è di più democratico e inclusivo di una serie così piena di buchi che potresti averla scritta tu? Del resto, cos’è il sofisticato sistema di rilevazione delle preferenze d’ascolto degli utenti Netflix se non una piattaforma Rousseau che ce l’ha fatta?
La facilità di accesso. Come il Movimento Cinque Stelle, anche la banda della Casa di carta è generalmente contro gli esperti o le forme di esperienza. Onestamente, alzi la mano chi aveva creduto che Rio fosse veramente un mezzo hacker. Le uniche due condizioni necessarie per entrare nella banda del Professor Marquina sono: respirare e avere precedenti penali. Allo stesso modo, per essere candidati coi Cinque stelle i requisiti non presentano barriere insormontabili. Bisogna: 1) aver aderito in precedenza al movimento, 2) essersi candidati in elezioni precedenti e 3) essere risultati non eletti. Quello che conta è trasmettere il messaggio che, non importa quanto sia lungo il nostro cursus honorum, in ciascuno di noi può albergare un parlamentare o un ladro. Le storie dei nostri eroi sono tutte da emarginati rivitalizzati, un po’ a disagio all’approcciarsi a una vita in vacanza a Panama o ai privilegi delle ZTL, e proprio per questo pasticcioni e pronti a mettere tutto a repentaglio, alla prima occasione inutile.
I credi. Come i grillini, anche i nostri rapinatori hanno grandi convinzioni collettive, ma ciascuno è poi libero di coltivare manie private e fissazioni personali. Come Nairobi, che pensa di essere una femminista o Raquel, che è convinta che il piercing al naso contribuisca a ridimensionarglielo. Allo stesso modo, anche se non tutti i grillini credono nelle scie chimiche o nei vaccini, nessuno impedisce loro di credere tutti — enormemente — in sé stessi. La frase rivelatrice: “Lo stato ci ha dichiarato guerra. Una guerra sporca. E abbiamo deciso di resistere”.
Le ascendenze. Abbiamo visto che i personaggi della Casa di carta, come i grillini, vengono dal basso o, comunque, da esperienze lavorative non particolarmente qualificanti. Eppure, all’occorrenza, non disdegnano avi strategicamente posizionati in questo o quel movimento di liberazione o di oppressione del popolo italiano, come nel caso del padre del Professore, che partecipò alla nostra Resistenza, o il padre di Alessandro Di Battista, che professa forme alternative di fascismo.
Le folle. “Ognuna di queste persone ora è una di noi”, mormora il Professore alla sua Raquel/Lisbona, nel secondo episodio della terza parte, mentre le spiega perché, mentre la loro banda preparava il colpo numero 2, quello al Banco de España, la folla madrilena si è organizzata in piccole sommosse espresse. “Liberamente”, osserva Lisbona, “si sono coordinati tramite “social media, gruppi di Whatsapp”. La morale è che sei hai abbastanza poco da perdere puoi tranquillamente aizzare il popolo con una serie di parolacce ed emoji ben concertate. Il Vaffanculo dei grillini è sostituito dai Figli di puttana della Casa di carta.
I conti. 2,4 miliardi di euro (quanto il Professore riuscì a stampare nella Zecca di Stato sotto sequestro) sono più o meno l’ammontare di detrazioni e deduzioni fiscali di una manovra finanziaria italiana. Ma a che serve una manovra finanziaria se poi non restituisce un po’ di liquidità ai singoli cittadini o, perlomeno, a quelli che avranno modo di allungare la mano per prenderla? Così, la scena madre della seconda puntata della terza parte è tra le più spettacolari della serie (non spoileriamo oltre). Nel pieno centro di Madrid, mediante dei dirigibili bianchi radiocomandati, la banda comincia a versare 140 milioni di euro sulla folla in tumulto. C’è da notare che la somma, frutto della loro precedente rapina, giustamente, era stata considerata un costo di marketing in vista della successiva.
Le balle. A corroborare l’ipotesi che La casa di carta non sia solo epica grillina nel contenuto, ma che sia, a sua volta, narrazione grillina da parte di grillini per grillini, non basta notare l’assenza di una figura di antagonista salviniano, a meno che non vogliamo considerare il Colonnello Prieto, capo dei servizi segreti, il Capitano iberico. Bisogna studiare, invece, l’impassibilità dei vari personaggi quando un altro comincia a spararle davvero grosse. Ad esempio: quando il Professore, come parte di un discorso romantico-motivational, esterna a Lisbona che, in Arabia Saudita, avrebbero coperto intere gradinate di stadio con il loro logo coi baffi di Dalì, “in segno di protesta”. Ci ha ricordato tanto quando i grillini sostengono innocentemente l’impossibile, tipo la loro strepitosa dichiarazione, all’indomani dalla nomina di Ursula Von Der Leyen: “Ha fatto suoi i punti principali del nostro programma”.
I personaggi. Le somiglianze e le corrispondenze sono tantissime, ma cercheremo di operare una sintesi.
Il look nerdy-sexy del Professore coincide con quello di Danilo Toninelli, ma fino a un certo punto. Certo, è pur vero che il Professore e il ministro dei trasporti italiano sono uniti dalla presunzione di intelligenza derivante dagli occhiali. Ma il Professor Sergio Marquina, in fondo, non può che essere Davide Casaleggio: uniti dall’eredità ricevuta anzitempo da un padre ingombrante, perché dotato di un piano più preciso del loro; sempre nell’ombra ma sempre a tirare le fila, a mettere ordine quando gli altri bisticciano, a mandare lunghe mail quando tutti sembrano volersi solo scrivere DM su Instagram.
Per creare un corrispettivo di Luigi Di Maio sono stati necessari ben due personaggi combinati e fidanzati tra loro: Rio e Tokyo. Lo hillbilly e la scheggia impazzita, una specie di uomo vitruviano del grillismo. È toccante, all’inizio della prima puntata della terza parte, il richiamo del cazzeggio esercitato dai cocktail panamensi, quando una delle due componenti del Ministro dello Sviluppo economico è costretta a chiedere all’altra di assentarsi per qualche giorno e fare la pazza, pur senza togliersi mai la croce dal collo. L’altra metà è pronta, con un bazooka, ad accogliere sull’isola la stampa e i poteri forti. Ma sarà fatta prigioniera.
Il Denver della terza parte della Casa è Di Battista nell’anno sabbatico in Sudamerica. È la corrispondenza più facile perché sono oggettivamente vestiti uguale. Sono entrambi destabilizzati dalla paternità e hanno deciso di risolvere la questione allo stesso modo: percorrendo un continente a scelta a bordo di un Ape calessino con moglie e neonato al seguito, alla conquista di mete esotiche, videobloggandone i dubbi risultati.
Nairobi è sempre Paola Taverna, per la dolceamara, inefficace ruvidezza con cui entrambe tendono a imporre la loro personale concezione di matriarcato al prossimo. Lisbona è Gianluigi Paragone, l’ex nemico, rappresentante della stampa e dei media, dei poteri forti, che non appena mette piede nella banda ci si sente perfettamente a suo agio, come se non avesse fatto altro nella vita.
Palermo è Rocco Casalino, perché viene da fuori, ma ha studiato bene il Movimento e presto è già in grado di dire a tutti cosa fare. E, soprattutto, è anche lui ingegnere.
Dulcis in fundo, Arturito è Matteo Renzi. Suo malgrado parte della classe dirigente colpita e affondata dalla seconda tornata elettorale della banda/Movimento (era il direttore della Zecca assediata), invece che ritirarsi in un eremo toscano — alla Berlino — ha deciso di riciclarsi come conferenziere-mattatore. Compare all’inizio della prima puntata della terza parte con microfono ad archetto d’ordinanza, intento a fare opposizione con discorsi motivazionali frammisti a solenni rosicate nei confronti del gruppo di bellocci che l’ha fatto fuori.
Le trascurabili differenze
1. I grillini, già dopo la loro prima stagione, sembrano aver subito smesso di fare fanservice.
2. Nella Casa di carta non ci sono problemi col numero dei mandati. Si può tranquillamente andare avanti anche per una quarta parte. Ma questa differenza, forse, sta per diventare un’analogia.
3. A tratti la Casa di carta fa ridere di gusto. “Non riesco a dormire con Cristo che mi guarda” è un Helsinki da stand up comedy. Ancora: la grazia con cui si introduce, in medias res, il nome di una nuova recluta, che dorme nella culla: “Fai piano, sveglierai Cincinnati”. È molto difficile, invece, che, per quanti sforzi i grillini facciano di scrivere ogni giorno una nuova dark comedy sullo sfondo della comunicazione politica, che riescano a non farci piangere.
4. Quando tutto sembra andare per il verso sbagliato, i ladri della Casa di carta scoprono puntualmente che gli intoppi tattici e i vari incidenti di percorso che, a prima vista, sembravano degli errori o proprio delle svarionate, erano in verità previsti dalla mente del Professore e del suo nuovo strategist Palermo. Lo stesso non può dirsi accade per i grillini che, normalmente, quando fanno un errore, ecco, quello è un errore.