È già successo con il rock & roll, e ora succede con le serie tv. Quando si importa una forma d’arte dall’estero c’è da superare un ostacolo: finché a cantare o recitare sono americani/inglesi/scandinavi, insomma anglofoni, ci pare tutto normale; appena cominciano a farlo gli italiani diventiamo ipercritici. Da una parte conosciamo meglio i contesti e la cultura che raccontano, quindi possiamo fare le pulci a Toni Servillo per La grande bellezza, mentre – boh – non ci irritano la parrucca di Bradley Cooper o l’accento di Jennifer Lawrence in American Hustle. Dall’altra, importando forme d’arte dalle culture in cui si sono affermate, dobbiamo vedere se, sostituendo gli ingredienti loro con i nostri, viene fuori qualcosa che sia interessante.
Mettere attori italiani a fare la recitazione casual prevista dalle serie tv americane può essere fatto solo con spirito fusion. I risultati variano: dalle sbiascicate famigerate di Tea Falco in 1992 a quelle iconiche di Tommaso Ragno nel Miracolo. A stringere, chi corre i rischi maggiori in questa fase di invenzione di un linguaggio che combini il talento italiano e un formato imposto dalla Nato – le serie tv – sono gli attori, perché ci mettono la faccia.
Un modo soft per cominciare è fare gli italiani all’interno di un contesto internazionale. Per esempio gli attori italiani impiegati in Trust di Danny Boyle, con Luca Marinelli capo dei rapitori e Andrea Arcangeli traduttore, quello che connette il rapito americano ai malavitosi italiani, un ruolo molto simbolico, se vogliamo. Fare gli italiani in un period piece americano diretto da un inglese è la soluzione meno problematica, ed è anche rappresentativo di un’era in cui le case di produzione si stanno lasciando indietro l’idea di un immaginario esclusivamente anglosassone per lanciare prodotti stranieri.
A volte puntando sull’esotismo – l’estetica cattolica e quella napoletana delle nostre serie vendute all’estero: The Young Pope, Miracolo, Gomorra, L’amica geniale –, a volte su un approccio di redistribuzione dell’immaginario – Dark, con cui Netlix voleva dare vita allo Stranger Things tedesco.
Tra le quattro serie degli attori che trovate sul numero di giugno di RS quelle che hanno il compito più difficile sono Suburra e La mafia uccide solo d’estate, perché sono invenzioni del tutto italiane, che devono scegliere se creare qualcosa di completamente autoctono o rifarsi alle direttive internazionali. Suburra ci aiuta a chiarire una cosa: come visto già in Gomorra, gli attori e gli sceneggiatori italiani sanno come mettere in scena criminali non derivativi.
La borghesia è più complicata da raccontare, sia perché quella italiana è sempre stata anomala, incompiuta, sia perché al cinema o è di sinistra (Silvio Orlando) oppure è troppo Rai, impostata, impacciata, con parlate corrette che cercano un ideale di “vita in centro” inesistente nella realtà (allora meglio Tea Falco). La mafia uccide solo d’estate ha i costumi e la voce narrante di Pif, è Rai, ha i violini, come recitazione va sul nazionalpopolare.
Alla fine forse l’unica via di uscita dalla uncanny valley della recitazione italiana nei formati internazionali è tradire ogni possibile tradizione televisiva elaborata in questo secolo e inventarsi qualcosa di fronte alla quale non ci sia ancora un giudizio possibile. Skam Italia, la versione locale di una serie norvegese sui liceali, ha risolto il problema distruggendo ogni canone. La serie è una mini soap che racconta al millimetro i tic – anche estetici e linguistici – dei liceali romani. Manda in onda clip molto brevi, una al giorno, a scadenza, tipo storie di Instagram, e poi li cuce insieme in un episodio. Gli autori italiani sono partiti dalle interviste ai liceali veri, e il risultato è qualcosa che trascende ogni tendenza americanofila, per fare la versione pettine di Tre metri sopra il cielo. Io non sono il target di questo prodotto, ma a livello teorico questa è davvero una soluzione.