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La puntata speciale non è niente di che, ma ‘Tiger King’ ha vinto ancora

Atteso da Pasqua, è arrivato anche da noi l’episodio extra della docuserie-fenomeno di Netflix. Che non aggiunge nulla al folle racconto precedente, ma si rivela la videochiamata che ci mancava in questi giorni di pandemia

Foto: Netflix

La puntata speciale di Tiger King spuntata sul Netflix americano come Easter egg nella scorsa, santissima domenica – da noi è online da ieri sera per motivi, pare, di traduzione: siamo pur sempre una repubblica fondata sul doppiaggio, anche quando vanno messi solo i sottotitoli – non è niente di che. Lo temevamo, innanzitutto per l’assenza delle due maschere principali della commedia dell’arte su cui si fonda il turbofenomeno: l’adorabile ciarlatano Joe Exotic e la spiritata megera Carole Baskin, novelli Falstaff e Blanche DuBois del teatro di oggi, che sono le serie di Netflix. Il primo è in carcere per il tentato omicidio della seconda: ma non si aggiunga altro, o si rischia di guastare la sorpresa ai quattro gatti (quelli ordinari: i big cats stavolta non c’entrano) che ancora non hanno visto nulla, beati loro.

Niente di che, si diceva, anche perché la caterva di commenti, analisi, decrittazioni – e, soprattutto, di gif e meme dedicati nelle ultime settimane di somma creatività collettiva – ha privato la serie della possibilità di superare se stessa. Eppure, Tiger King ha vinto ancora. Rivelandosi, oltre al colosso da record mediatici e sociologici che monta di giorno in giorno, pure la prima serie che sa dare una lettura precisa di questo tempo di pandemia. L’episodio extra altro non è che una videochiamata di gruppo, di quelle di cui non possiamo più fare a meno all’ora dell’aperitivo, ormai apericall: consigliamo dunque la visione mentre si stappa una ribolla. Joel McHale, attore comico popolarissimo in patria (rivedetevi, tra le cose sue, il delizioso Community finalmente arrivato anche da noi, sempre su Netflix), fa quello che facciamo coi nostri vicini lontani: chiama i volti della serie, almeno i sopravvissuti, e si fa aggiornare sui casi della vita vecchi e nuovi, come noialtri ogni sera in diretta con amici e parenti assortiti. I casi più leggeri: gli americani in fila da Walmart sfidano la distanza di sicurezza per abbracciare gli instant-idoli fabbricati dalla serie. I casi più pesanti: come ci si riprende dal suicidio del tizio che si è sparato di fronte a te? In buona sostanza: è la vita. E, nella sua folle rozzezza, Tiger King ce l’aveva già spiegato meglio di chiunque altro.

Altre cose che scopriamo dalla visione di Tiger King ed io, questo il titolo della puntata in più. Che le connessioni negli Stati Uniti sono efficienti e speditissime pure nello sprofondo della provincia, altro che collegamenti Skype con Lilli Gruber. Che la prima impressione è sempre quella che conta: lo scagnozzo senza gambe John Reinke rimane, tra tutti, il preferitissimo; la moglie dell’attuale gestore dello zoo della discordia Jeff Lowe è, col marito, il paradigma della bifolca che si crede arrivata. Che anche nella vastissima America white trash esiste il dibattito sul transessualismo (vedi Kelci Saffery), e che è più pacato di quello in corso nella bolla progressista, che di progressista ha sempre meno. Soprattutto, scopriamo una volta per tutte che i famigerati quindici minuti di celebrità non sono mai bastati a nessuno: qualunque componente di questa corte dei miracoli, passato da signor nessuno a idolo delle folle in un weekend, sta già pensando se farsi interpretare da Matthew McConaughey o Billy Bob Thornton nel biopic che verrà.

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