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Le cucine dei ristoranti sono davvero così tossiche come racconta ‘The Bear’?

In attesa della terza stagione (in arrivo da noi ad agosto), un’ex chef oggi scrittrice s’interroga su cosa c’è di vero e cos’è invece sbagliato nel modo in cui la serie culinaria più cool di sempre ritrae le “hell’s kitchen”

Foto: FX/Disney+

Ho frequentato una scuola di cucina e lavorato in cucine professionali, e so che è facile criticare The Bear (la terza stagione arriverà in Italia su Disney+ il 14 agosto, ndt) per alcuni dettagli poco realistici (la totale indifferenza di Carmy nei confronti dei costi del cibo è in cima alla mia lista). Tuttavia, la serie ha anche molte cose assolutamente corrette: i margini di profitto ridottissimi che confondono il proprietario del ristorante Jimmy; la profonda ansia e l’improvvisa soddisfazione che vediamo sul volto di Tina mentre lavora per diventare una cuoca competente e raffinata; e, soprattutto, la cultura profondamente radicata, adattata direttamente dalla struttura militare europea della fine del XIX secolo, in cui i cuochi come il giovane Carmy sono pezzi di carbone, destinati ad essere pressati dagli chef spesso attraverso la paura, l’intimidazione e l’umiliazione, per diventare diamanti.

È un cliché ben collaudato, quello dello chef tirannico e terrorizzante che costringe un giovane cuoco alla sottomissione, e quelle “storie di guerra” vengono scambiate per aneddoti divertenti, come il classico Kitchen Confidential di Anthony Bourdain, il libro che ha reso l’intero sistema accessibile ai “civili”. A proposito del suo periodo come studente di cucina, Bourdain scrive: “Se c’era un Terrore Definitivo, un uomo che corrispondeva a tutte le nostre idee di vero chef, un francese mostruoso, dispotico, dal pugno di ferro che governava la sua cucina come il presidente a vita Idi Amin, quello era lo chef Bernard… ‘Sei uno chef di merda’, urlava. ‘Faccio due cuochi come te nel cesso ogni mattina! Questa cosa è un abominio! Dovresti ucciderti per la vergogna!'”.

Lo chef-superstar Eric Ripert, nel suo memoir 32 Yolks, racconta una storia simile, ma non fa mistero della paura che ha provato quando ha lavorato per Joel Robuchon: “È stato il mio primo capo veramente spaventoso. Dopo un mese, ero completamente terrorizzato. Anche quando riuscivo a convincere me stesso a non farmi condizionare emotivamente dalla paura, mi ritrovavo paralizzato alla sola prospettiva di cercare di eguagliare i suoi ritmi”.

Una volta ero innamorata di uno chef la cui storia è molto simile a quella del protagonista di The Bear, Carmy Berzatto (Jeremy Allen White). Sensibile, creativo e gran lavoratore, ha lavorato gratis in un ristorante molto rispettato, imparando i rudimenti della cucina di alto livello mentre il suo capo gli diceva ogni giorno che era un inutile pezzo di merda. Dopo qualche mese, fu felice di guadagnarsi un soprannome crudele, perché significava che ora faceva parte di una squadra di altri ragazzi con soprannomi crudeli. Quando fu sufficientemente addestrato, il suo capo lo mandò al Daniel – il locale di Manhattan dello chef Daniel Boulud, prima tappa del tour newyorkese di Carmy – dove lavorò 14 ore al giorno per i due anni successivi, guadagnando pochissimo, dormendo sul divano di un parente e chiedendosi se fosse normale avere un attacco di panico ogni mattina. Sapeva che era una brutta sensazione, ma sapeva anche quanto fosse fortunato a trovarsi in una cucina importante, a imparare così tanto, a diventare il migliore in quello che amava fare.

“Alcuni dei miei mentori mi hanno detto e fatto cose terribili, ma è complicato”, mi ha detto una volta, “perché li amo per quello che mi hanno insegnato”.

Posso capirlo: In una rara serata insieme, mentre preparavo la cena per noi due, mi notò mentre versavo del brodo di pollo in un misurino di acciaio inossidabile.

“Che cazzo stai facendo?”, mi urlò. “Non si mette mai un liquido in un misurino asciutto”.

“Non sono uno dei tuoi cuochi del cazzo”, gli ho risposto.

“Non me ne frega un cazzo. Usa lo strumento giusto quando lavori”.

Per quanto mi fossi arrabbiata e messa sulla difensiva, i suoi modi così duri fecero sì che la sua lezione mi rimanesse impressa. La nostra storia d’amore è finita da tempo, ma ora, quando misuro i liquidi, il suo rimprovero risuona ancora nella mia testa e uso lo strumento giusto. Allo stesso modo, uso un tocco leggerissimo quando condisco le insalate, pensando sempre a un altro chef, il mio vero capo, che, in un momento frenetico del servizio della cena, mi guardava fissa negli occhi mentre gettava nella spazzatura un piatto da me assemblato in modo approssimativo, ringhiando: “Troppo olio, cazzo!”.

In entrambi i casi, gli chef avevano ragione. Avevo sbagliato, mi sono vergognata e ho fatto meglio la volta successiva e quella dopo ancora. Il mezzo (intimidazione, paura, umiliazione) era il messaggio (fai le cose per bene) e ha lasciato il segno. Ho capito.

Nei flashback apprendiamo che Carmy è stato addestrato dai migliori: Boulud, René Redzepi, Thomas Keller e la fittizia Andrea Terry (Olivia Colman), tutti rappresentati come mentori severi ma gentili, generosi. Ma lo chef le cui lezioni sono penetrate più a fondo è il demone personale di Carmy, lo chef immaginario David Fields, interpretato come un gelido sadico da Joel McHale. Nei flashback, vediamo Fields distruggere silenziosamente e senza pietà Carmy per imperfezioni lievi o inesistenti, dicendogli sottovoce che è lento, inutile, senza talento, e che meriterebbe di morire.

Anni dopo, nel finale della terza stagione (attenzione: spoiler), Carmy dice di Fields: “È il peggiore, cazzo, e però anche uno dei migliori chef del mondo. Una faccia di merda, un bastardo. Mi ha fatto impazzire”. Ha la momentanea soddisfazione di chiamare direttamente lo chef “uno stronzo”, al che Fields risponde: “Non c’è di che. Quando hai iniziato a lavorare con me eri un bravo chef e sei andato via da ottimo chef. Quindi, prego”.

Dopo che Carmy ha sbottato dicendo che Fields gli ha fatto venire “l’ulcera, gli attacchi di panico e gli incubi”, Fields risponde: “Ti ho dato fiducia, leadership e talento. Ha funzionato, cazzo”.

Pochi secondi dopo il confronto, Carmy si accascia contro un muro, da solo, con il volto attraversato da uno spettro di reazioni – incredulità, terrore, devastazione, sollievo, divertimento – e noi rimaniamo con la domanda: ne è valsa la pena, anche se è diventato lo chef che è oggi?

Sappiamo da tutte quelle inquadrature della sua libreria che Carmy è un avido collezionista di libri; spesso mi sono trovata a desiderare che qualcuno nella sua vita sostituisse il suo Larousse Gastronomique con una copia di Ambition Monster di Jennifer Romolini. Si tratta di un’autobiografia estremamente sincera che collega l’infanzia difficile dell’autrice al suo incessante stacanovismo nei settori dei media e della tecnologia, al suo successivo e debilitante esaurimento nervoso e alle intuizioni conquistate col tempo sulla vacuità del perfezionismo. Ciò che Romolini ha scritto in un capitolo sul superlavoro – “Chi ha una predisposizione al superlavoro spesso cresce in case caotiche. In età adulta, l’iperfocalizzazione sulla carriera crea un senso di controllo nella loro vita, permettendo loro di dissociarsi dai ricordi dolorosi” – avrebbe potuto essere tratto da una descrizione ufficiale del personaggio di Carmy. Quando ho terminato la lettura simultanea del suo libro e il binge-watching della terza stagione di The Bear, ho chiesto a Romolini se vedeva in lui una versione di sé stessa.

«Ho lavorato nei ristoranti per dieci anni», mi dice Romolini. «Quando hai avuto un’infanzia traumatica, sei vulnerabile a persone come [lo chef David Fields]. Hai voglia di conferme e cerchi di essere il migliore; ti metti in una posizione in cui le persone possono approfittarne e trattarti con crudeltà. Quando si cresce nel caos si è abituati a un’adrenalina sempre crescente, e i ristoranti la riproducono in un modo che sembra molto naturale, che ti mette quasi a tuo agio perché è familiare».

Lo chef di cui una volta ero innamorata era d’accordo. Anche lui era cresciuto sentendosi insicuro e incerto su chi e come sarebbero stati gli adulti intorno a lui, di giorno in giorno. Le strategie di coping elaborate da bambino hanno influenzato la sua etica del lavoro in cucina. Divenne un uomo che dava il meglio di sé quando veniva preso di mira dagli chef, e che si impegnava al massimo per cercare di guadagnarsi le loro lodi.

Ne è valsa la pena? Deve essere per forza così?

No. Qualche settimana fa, uno chef di New York, Jamal “James” Kent, è morto improvvisamente per un attacco di cuore, all’età di 45 anni. Da adolescente iper-creativo e decisamente irrequieto, ha trovato rifugio nelle cucine e, come Carmy, ha accumulato un notevole pedigree gastronomico, lavorando per e imparando da giganti come David Bouley, Mario Batali, Jean-Georges Vongerichten e Daniel Humm. Era al timone di due ristoranti acclamati dalla critica, si stava preparando a inaugurare altri progetti ambiziosi a New York, Los Angeles e Parigi e stava scrivendo un libro di cucina. Era felicemente sposato e padre di due figli.

Subito dopo la prematura scomparsa di Kent, ho visto una sua breve intervista video, risalente al marzo di quest’anno, in cui esponeva una filosofia manageriale nettamente in contrasto con il vecchio degli chef dispotici che maltrattano i loro sottoposti. Come Carmy, Kent aveva i suoi “punti fermi”, tra cui “rispettare le persone e trattarle in modo corretto”.

Kent era chiaramente impegnato in un nuovo tipo di cultura della cucina, il che rende la sua perdita ancora più dolorosa, ma il sottile lato positivo della sua morte, e dell’attenzione che gli è stata dedicata, è che forse più colleghi si prenderanno il tempo di ascoltare ciò che aveva da dire, ovvero: “Cerco di essere un buon essere umano, e penso che sia solo una grande abilità essere buoni e gentili. Ai giovani chef dico: quando lavorate ad alti livelli, dovete solo assicurarvi che quando un dipendente vi vede entrare nella stanza si senta al sicuro”.

Alla fine della terza stagione di The Bear rimaniamo con la scritta “to be continued“, incerti se la recensione del Chicago Tribune farà fiorire o fallire il ristorante per il quale Carmy ha rinunciato a tutto. Per me, la domanda più importante è se riuscirà a cambiare strada ed essere il tipo di leader che rompe il ciclo secolare fatto di paura, intimidazione e umiliazione.

Laurie Woolever è scrittrice ed editor. Il suo memoir, Care and Feeding, sarà pubblicato negli Stati Uniti nella primavera del 2025.

Da Rolling Stone US

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